Altri Viaggi

By Lenny Bruce

Published on Nov 13, 2010

Gay

DISCLAIMER: The following story is a fictional account of young teenage boys who are in love. There are references and graphic descriptions of gay sex involving minors, and anyone who is uncomfortable with this should obviously not be reading it. All characters are fictional and any resemblance to real people is purely coincidental. Although the story takes place in actual locations and establishments, the author takes full responsibility for all events described and these are not in any way meant to reflect the activities of real individuals or institutions. The author retains full copyright of this story.

Questo è il sesto degli otto capitoli che compongono questo romanzo.

Altri Viaggi

  1. RITORNO

Dopo il campeggio provai a sparire un'altra volta, ma la mia fuga durò esattamente trenta minuti, perché, il giorno dopo il nostro rientro, alle sette e mezza, Paoletto era davanti al cancello di casa e suonava il campanello.

Quella sera dovevamo vederci alle sette nella sede del reparto per disfare i bagagli, gli zaini e gli scatoloni, stendere le tende per farle asciugare, riporre gli attrezzi. E i ragazzi erano ansiosi di ritrovarsi a parlare del campeggio. Non ero obbligato ad andarci, perché il mio compito si era certamente esaurito con la conclusione del campo, ma Paoletto s'aspettava che ci fossi.

Volevo andarci, ma me ne era mancato il coraggio. Affrontarlo ancora per dirgli cosa? Alle sette mi nascosi nella mia camera, sepolto dietro un libro che non volevo leggere, ma che mi obbligavo a seguire, come fosse una punizione. Mentivo a me stesso nascondendomi, perché ero certo che Paoletto mi avrebbe cercato. Non potevo sperare che mi lasciasse perdere, non con quello che gli avevo detto e promesso, non dopo l'intimità, le confidenze dei giorni passati.

Alle sette non ero al reparto e lui resistette solo qualche minuto prima di lasciar perdere tutto e venire a cercarmi.

Non aprii subito. Ero come paralizzato dalla paura che mi aveva già bloccato in casa. Se l'avessi rivisto, avrei dovuto mantenere la mia promessa e allora tutto sarebbe cambiato, precipitato. Avevo incoscientemente preso quell'impegno ed ora ne ero pentito.

Vederlo là, davanti a casa, mi angustiò ancora di più, perché sapevo che lasciare il reparto proprio quella sera, per cercare me, doveva essergli costato parecchio. Quella era proprio l'ultima volta per lui. Non avrebbe più avuto occasione di tornare al reparto come caposquadriglia. L'anno dopo le tende le avrebbe ripiegate un altro e dopo quella sera lui sarebbe stato soltanto un ospite!

Ma aveva lasciato perdere tutto lo stesso e se ne stava tranquillo, ad aspettare che mi decidessi. Dietro il cancello, con gli occhi fissi alla vetrata dell'ingresso.

Doveva aver capito che ero là dietro, nascosto dal riflesso dei vetri, perché mi fissava, o almeno credevo che fosse così.

Ma una cosa era certa: mi cercava, mi cercava ancora. Avrebbe continuato a farlo, nonostante tutto, nonostante me.

Suonò un'altra volta. Sentii mia madre muoversi per aprirgli e fui finalmente costretto a farlo io. Aprii la porta e corsi verso il cancello.

"Ciao" mi gridò fra le sbarre. Mi sorrise come se quella fosse proprio l'ora del nostro appuntamento e non m'avesse atteso per mezz'ora e poi qualche altro minuto scampanellando.

Mi sorrise sereno.

Ed io fui felice di vederlo, almeno quanto mia madre, che mi aveva seguito sul viale e restò sorpresa, scoprendo che qualcuno mi cercasse con tanta insistenza. Poi riconobbe Paoletto e si avvicinò per salutarlo. Abbandonò il suo torpore, per andargli incontro e arrivò a sorridergli, forse tranquillizzata di vederlo un'altra volta in casa nostra. Questo contribuì a rasserenarmi, a farmi rinunciare, per il momento, ai miei propositi.

"Ti aspettavo, perché non sei venuto?" chiese lui appena fummo soli.

"Ero stanco..."

Era una scusa e lui non ci credette.

"Allora? Vieni?"

Come dirgli di no?

Lo seguii al reparto e trascorremmo la serata assieme agli altri. Tornammo a casa che era quasi mezzanotte ed io, immemore delle mie promesse, dei miei propositi o paure, ero contento, perché facemmo la strada insieme, a braccetto.

Lui non smise mai di parlare. Mi raccontò ancora di sé, degli ultimi anni.

Mi pareva fosse ieri, tre anni prima.

Tornai a percepire l'odore delle caramelle, quell'aroma di liquirizia che era connaturato in lui, faceva parte della sua persona. E poi la voce che era cambiata, ma che conservava tutta la dolcezza che avevo amato e che amavo ancora disperatamente. E gli occhi, i capelli che aveva in qualche modo domato, l'andatura ondeggiante delle persone alte. Era diverso, ma sempre lui stesso, in quei posti, nelle stesse strade.

Mi camminava accanto. Lo sentivo parlare e ogni tanto gli chiedevo di qualcuno di cui avevo perso le tracce e il ricordo e che ora mi tornava in mente. La sua vicinanza stava ormai riaprendo tutte le porte della mia memoria, porte che avevo chiuso sbattendole, gettando la chiave stizzito e che ora avrei un po' desiderato non aver chiuso.

Ridevamo felici, ma sentivo dentro di me crescere l'ansia. Stava per chiedermelo, lo sapevo.

Ed io che ero innamorato, avevo accanto a me l'oggetto di quel sentimento, non potevo, non volevo dirglielo. Se era così che doveva andare, se Paoletto aveva deciso che dovevo per forza restargli accanto, l'avrei seguito ovunque e finché l'avesse voluto. Sempre in silenzio, al mio posto. Sarei stato l'amico più anziano, pronto a dargli consiglio, a sostenerlo. Ma non gli avrei rivelato il mio segreto.

Già facendo quei pensieri eroici, mi sentii sciocco, perché lui non aveva bisogno di me, non cercava aiuto. Nella sua vita aveva imparato ad essere solo. Sarei stato io ad avere sempre bisogno d'aiuto.

Scoppiai a ridere, perché aveva detto una di quelle cose che ti fanno davvero gioire, quando a dirle è il tuo innamorato. Continuai a sorridere, ma divenne un riso amaro. E lo fu ancora di più, perché sapevo benissimo che non sarei mai stato in grado di restargli accanto senza insidiarlo. Pareva che la vita non mi avesse ancora insegnato nulla se continuavano a venirmi idee così ingenue.

Mi sfiorai l'inguine per esserne certo e ciò che toccai mi confermò quanto fossi sciocco e disonesto, anche con me stesso.

"Che hai da fare domani pomeriggio?" chiese lui, ignaro di tutti i miei pensieri.

Eravamo arrivati davanti al cancello di casa.

"Vieni anche tu a giocare a pallone? Siamo i soliti. Alla pineta. Dieci persone, ma c'è posto anche per te."

Inutile fingere di essere impegnato in qualche modo. Gli avevo già rivelato quanto fosse vuota la mia vita, occupata soltanto dalle letture e da qualche film. Potevo inventarmi di non voler più giocare a pallone perché avevo paura di farmi male. Stavo per dirgli così, ma perché mentirgli ancora?

Lui non lo meritava ed io ero stanco di fingere. E poi, non avevo appena deciso di tornare ad essere, seppure a certe condizioni, suo amico? Anzi, il suo casto accompagnatore, nonostante la mia erezione.

"Che vuoi fare?"

"A che ora hai detto?"

"Allora ci vieni!" e gli si illuminarono gli occhi "Si gioca alle tre e mezzo. Se ci vediamo alle tre... oppure è troppo presto per te? Farà caldo?"

La sua voce s'era fatta ansiosa. E mi commosse che si preoccupasse per me.

"No, no! Per me va bene" dissi "passo a prenderti con la Vespa."

"Ce l'hai ancora?"

Riaffiorò un ricordo che mi intenerì: io e lui sulla vespa.

"Non è quella che ricordi tu" ci tenni a dirgli "Quella la vendetti per comprarmi la droga. Mio padre me ne prese un'altra, quando tornai... normale. Non l'ho ringraziato per questo. Quando andai nel garage e la vidi, pensai che non ci sarei mai salito. Poi decisi di usarla, ma l'ho presa soltanto qualche volta."

Stavo anche per dirgli che non l'usavo con piacere, perché mi ricordavo di lui al solo guardarla.

"Sai..." dissi invece "quello è stato il suo ultimo regalo! Poi non me ne ha più fatti, perché io non gli ho chiesto mai nulla. Ma lui ormai era troppo ammalato, altrimenti me ne avrebbe fatti ancora. Lui pensava... era convinto..."

Non riuscii più parlare. Mi ero lasciato andare un'altra volta e non avrei voluto.

"Non sei obbligato a dirmi queste cose..." e mi posò la mano sul braccio. Nonostante facesse molto caldo, rabbrividii. Se m'avesse toccato un'altra volta... mi scostai, allontanandomi da lui di qualche passo. Poi gli tornai vicino, perché mi stava guardando senza capire.

"Mio padre" dissi quasi a me stesso, dimenticando della sua presenza "pensava di doversi far perdonare da me non so cosa. E quante volte ha cercato di dirmelo! Ma io non gliel'ho mai permesso, perché ero io che volevo chiedergli perdono. Di tutte le cose. E non sono mai riuscito a parlargli, non ho mai trovato il coraggio di dirgli tutto. E adesso lui è morto..."

"Se deciderai di parlare" disse "se ti va, raccontami tutto. Vorrei tanto che tu lo facessi. Me l'hai promesso, te lo ricordi?"

"Scusami... è che io sono un po' cambiato. Sono accadute tante cose..." ripetevo sempre quelle frasi.

Mi afferrò il braccio. Era una presa forte e non sarei riuscito a divincolarmi. Niente brividi di emozione questa volta, ma solo una gran paura. Che se ne andasse. Ma lui mi scosse:

"Lo capisci che non mi importa nulla di quello che hai fatto? Lo sai che se ti avessi incontrato in quei momenti, se tu l'avessi voluto, ti avrei chiesto lo stesso di tornare ad essere mio amico?"

Chiuse gli occhi nello sforzo di non piangere. Quando li riaprì erano lucidi di lacrime. Ma lui piangeva raramente e infatti si ricompose subito.

"Perché continui a sfuggirmi?" ruggì invece esasperato.

"Paoletto, io..."

"Sono troppo piccolo per essere tuo amico? Oppure ti vergogni di me?"

"No! Sono io che mi sento sporco! Non capisci? Tu... se sapessi, ti vergogneresti di me..."

"Dimmi perché..." mi fissò "dimmelo!"

Abbassai la testa e non trovai di meglio che guardarmi la punta delle scarpe.

"Ho paura di influenzarti" mormorai "di spingerti a fare delle cose che non vuoi, che non desideri davvero, che faresti solo perché sei mio amico. Potrei farti del male."

"Ma si può sapere che cazzo c'è in te di tanto brutto?" gridò così forte che temetti lo sentisse qualcuno.

Scossi la testa.

"Hai ripreso a drogarti?"

"No!"

"E allora perché? Perché non posso saperlo? Credi che sia stupido, ingenuo? Se hai tanta paura, se è proprio così, perché sei venuto a cercarmi? Non dovevi farlo!"

Fu come se mi avesse dato uno schiaffo, ma aveva ragione. Era stato tutto inutile, tornando avevo reso vana la sofferenza di tutte le persone che mi amavano.

"È stato Marco a cercarmi" dissi, tentando di giustificarmi "Non ci sarei mai venuto da solo" quasi che Marco mi avesse obbligato ad andare al campeggio.

"E non sei tornato per me?"

Scossi la testa. Lo stavo deludendo, ma in quel momento mi parve necessario.

"Ma sono felice di averti ritrovato" aggiunsi, sperando di rassicurarlo "e non me ne andrò un'altra volta!"

"Questo me l'hai già detto" s'appoggiò al muro, valutando le mie parole.

Poi mi fissò.

"È per me che sei scappato, io lo so, l'ho capito. Prima non riuscivo a spiegarmi tante cose. È stato per me, ma devi dirmelo tu!"

"Ti dirò tutto. Dammi tempo, ti prego!"

Forse ebbe pietà di me, perché tornò improvvisamente sereno, almeno, mi sembrò che fosse così:

"A domani, allora! Vieni a giocare?"

"Si."

"Senti..." mi guardò, ci pensò un po' su, poi disse "a me non importa di niente. Se tu non vuoi dirmelo, io non voglio più saperlo, però... quando due persone sono come noi, quando... sono come noi..."

E improvvisamente vidi che cambiava espressione. Il volto si contrasse e mi tirò un pugno fortissimo alla spalla. Poi scappò via, a testa bassa, lasciandomi senza fiato per la sorpresa e per il dolore. Sparì dietro l'angolo prima che potessi fare o dire qualunque cosa. Forse anche dargli un bacio.

Ci saremmo rivisti? Forse si, che m'importava del resto?

Mi sentii invadere da una felicità mai provata. Avrei voluto rincorrerlo, abbracciarlo, riempirlo di baci, portarlo con me in casa e là amarlo. Non sapendo come.

Naturalmente non feci nulla di tutto questo.

Rimasi fermo, inchiodato davanti al cancello, con la chiave a mezz'aria e la bocca spalancata. Mi sentivo la spalla pulsare per il dolore: non pensavo che fosse diventato così forte. Doveva essere davvero arrabbiato.

Era possibile che mi amasse, altrimenti perché comportarsi come aveva fatto?

Nella mia mente riascoltai la sua voce dire quelle ultime frasi: potevano avere un solo significato o averne mille altri. Decisi che tutto ciò avesse un senso ed era quello che io desideravo. E solo quello.

Non avevo mai provato l'amore, se non filtrato attraverso i miei sensi di colpa ed ora scoprivo che qualcuno forse provava per me un sentimento simile. La possibilità che potesse accadere, senza quindi fargli del male, arrivò a stordirmi.

Sempre che lui lo volesse davvero, che io non stessi sbagliando. Che domani lo trovassi alle tre sotto casa sua. Poteva non esserci. L'avrei cercato ugualmente?

Non riuscivo ad aprire il cancello. Mi tremavano le mani. Ero là, nel silenzio apparente della notte estiva. Mi resi lentamente conto che Paoletto non era più con me e tutto a un tratto fui disperato: se l'avessi perduto, pensai, sarei tornato a drogarmi. Quella coscienza mi fece sobbalzare. Ebbi paura di lui: avevo venduto l'anima un'altra volta? Era lui la mia nuova droga. La creatura più forte che uccideva il mostro. Ma finalmente non era un mostro a scacciarne un altro. Sarebbe venuto il momento in cui ci saremmo incontrati per dirci il nostro amore, nel frattempo io l'avrei amato in silenzio. Poi, un giorno, lui mi avrebbe capito.

Corsi verso casa, mi spogliai e m'infilai a letto. Tirai il lenzuolo per coprirmi anche la testa. Avevo paura, tanta. Di rivederlo e non rivederlo.

Dormii poco.

Appena sveglio cercai di recuperare un abbigliamento accettabile per affrontare una partita di calcio fra amici su un terreno di fortuna. Le scarpe furono il problema più grosso, ma decisi che ne avrei comprate un paio di nuove. Tanto, mi dissi, stando accanto a lui avrei avuto molte occasioni di usarle.

"Ti amo e forse non lo saprai mai! Ti amo, ma non potrò dirtelo! Ti resterò accanto, non temere..." ripetei queste giaculatorie per tutta la mattina, sobbalzando ad ogni rumore, con i nervi a fior di pelle e mia madre ad osservarmi dubbiosa che il mio nervosismo avesse un'origine più preoccupante.

Fui felice di rassicurarla, di confortarla.

"Vado a giocare a pallone, mamma. Sai quant'è che non lo facevo? Paoletto mi ha convinto a giocare un'altra volta."

"Stai attento. State attenti a non farvi male" disse lei, come mi aspettavo che facesse e mi parve che fosse contenta. Quasi che quel mio risveglio alla vita l'avesse, non dico contagiata, ma almeno un po' scossa. Poi mi sorprese:

"Allora siete tornati amici" mi accarezzò "E gli vuoi bene come sempre?"

"Si!"

Che sapesse? L'aveva sempre saputo?

Non arrivammo a scambiare altre parole, perché si ritrasse e tornò a chiudersi nel suo silenzio. Ma era rincuorata. Non osai pensare che fosse felice, ma la sua malinconia mi parve attenuarsi. Non aveva che me ed io lei. E Paoletto forse.

Quando spuntai dietro l'angolo, lui già mi aspettava sotto casa sua. Era non meno impaziente di me, credetti di capire.

Saltò sulla Vespa e senza una parola, a parte un saluto frettoloso, si sistemò sul sellino, aderendo al mio corpo.

Quando sentii il suo profumo, tornai indietro di anni, fu un deja vù in piena regola. L'avevo portato con me sulla Vespa così tante volte, che eravamo diventati un corpo unico, in perfetta simbiosi su quel piccolo sedile, scomodo già per un solo passeggero.

In due sul sellino si stava stretti e proprio per questo mi piaceva portarci soltanto lui, perché la vicinanza era assoluta e il contato inevitabile. Prima mi ero così abituato a sentirlo dietro di me, che distinguevo e disegnavo nella mia mente ogni parte del suo corpo: dalle gambe che stringeva sempre contro le mie cercando di creare il minore ingombro possibile, ai capelli che mi sfioravano la testa e il naso che nelle frenate mi sbatteva sempre sulla nuca. Il torace era schiacciato sulle mie spalle e arrivavo a sentire il petto premermi sotto le scapole. Quando eravamo in sella mi abbracciava e spesso appoggiava il mento sulla spalla. Poi, stanco di quella posizione che era scomoda, perché era ancora un po' più basso di me, mi appoggiava la fronte sulla nuca e la premeva attirandomi a sé, mentre mi passava le mani attorno ai fianchi. Abbracciandomi così, il corpo aderiva completamente al mio e il suo inguine era schiacciato contro di me. Mi godevo quella percezione e avevo perfino fantasticato su qualche sua erezione, il suo uccello schiacciato sulle mie natiche era una sensazione inebriante, moscio o eretto che fosse, ed io me la godevo, arrivando a muovermi per sentirlo meglio.

Quel giorno, come se non fosse trascorso tanto tempo e non avessimo entrambi tre anni in più, saltò sulla Vespa e mi abbracciò, aderendo a me come aveva sempre fatto. La differenza, che notai subito, fu che era diventato alto quanto me e quindi poté appoggiarmi il mento sulla spalla, accostando il suo capo al mio.

Indossavamo indumenti leggeri, magliette e pantaloncini. Sul dorso percepii nettamente la forma del torace. Credetti d'indovinare i capezzoli e il petto muscoloso e più giù riconobbi la forma del suo pene schiacciato contro il mio osso sacro. Mai quella parte del mio corpo ebbe tanta sensibilità come in quel breve spazio di tempo, qualche minuto, in cui godé di quelle sensazioni così acute ed intense. Lui si aggiustò spesso e mi strinse sempre di più, ma non disse una parola, mentre guidavo nel poco traffico del pomeriggio. Era insolito che restassimo per tanto tempo in silenzio, che lui non parlasse, ma ero troppo preso a godermi il suo abbraccio per accorgermene.

Ci fu un equivoco alla base del nostro silenzio. Io che l'amavo fui distratto da quell'abbraccio e lo godetti con tutto me stesso, aspettando che fosse lui a parlare.

E lui tacque, forse, pensai dopo, disorientato proprio dal mio silenzio.

Uscii dalla città e mi diressi verso la pineta sul mare, appena oltre la periferia, dove solitamente giocavamo a pallone.

Quando arrivammo, trovammo gli altri che furono sorpresi di vedermi: mancavo da così tanto tempo, mi dissero, che avevano dimenticato quanto fossi bravo. E giù risate: mi aspettavano.

Avevamo tutti voglia di cominciare e mentre ci cambiavamo, formammo le squadre. Nell'emozione di tornare a giocare, non notai che Paoletto se ne stette in disparte e soprattutto fece in modo di giocare contro di me. Solo quando le squadre furono fatte, me ne accorsi e mi dispiacque, perché mi parve una specie di tradimento: che ricordassi era accaduto poche volte.

Lo guardai di traverso e mi restituì uno sguardo di sfida. Gli feci l'occhiolino e lui sorrise, mostrandomi i denti. Bastò a tranquillizzarmi, pensai che scherzasse.

Finimmo di cambiarci, indossando magliette e calzoncini ancora più leggeri. In altri tempi, qualche anno prima, quel momento sarebbe stato di grande interesse per me: sbirciare nudità nei miei compagni era stato uno dei miei passatempi preferiti. Anche quella volta lanciai sguardi ai ragazzi che si stavano togliendo i pantaloni. Un paio di loro si sfilarono anche le mutande per indossare il costume da bagno. La pineta era vicina al mare e dopo la partita qualcuno si sarebbe dato una lavata, nuotando. Erano nudità ingenue che mi venivano offerte e che mi eccitarono. Paoletto restò in mutande, prima di mettersi i calzoncini da calcio. Mentre lo fissavo, colse il mio sguardo e lo vidi arrossire, voltarsi risentito. Si rivestì in fretta, infilandosi i pantaloncini. Distolsi anch'io lo sguardo. Ero arrabbiato con me stesso per averlo turbato, ma i miei occhi si erano riempiti di lacrime, perché desideravo disperatamente quel corpo e ancora di più avevo bisogno del suo amore.

Vederlo così era più di quanto potessi sopportare.

Per fortuna incominciammo a giocare e non ci pensai più. Mi ritrovai a rincorrere il pallone: avevo dimenticato quanto fosse avvincente. Non ci avevo quasi più giocato da quando avevo lasciato gli scout, ma subito tornai ad appassionarmi, a vivere con entusiasmo ogni momento della partita. Ogni tocco dato al pallone mi parve una conferma del mio ritrovato ordine interiore. Ogni calcio, ogni tiro o passaggio che fosse, era la prova che la mia quotidianità era tornata ad essere giusta, umana.

Una nota stonata doveva turbarmi: Paoletto che si accaniva contro di me, come non aveva mai fatto. Mi marcava stretto, asfissiandomi con i suoi interventi, quasi fossi stato un campione del calcio, e non lo ero certamente. Quando avevo il pallone e dovevo fare un'azione di gioco, me lo ritrovavo incollato, a spingermi, a tirarmi calci, fino a farmi cadere. E la mia squadra ottenne diverse punizioni per i suoi falli su di me. Era un comportamento inspiegabile, mai ci eravamo fatti del male e se per scherzo ci eravamo presi a botte era sempre finita in abbracci.

Là invece per me erano colpi dolorosi. Fino ad uno sgambetto che mi fece finire a terra.

"Ma vaffanculo" sbottai "che cazzo fai?"

Le bestemmie fra noi non erano usuali, erano quasi vietate, ma in quel momento parvero giustificate: mi aveva buttato a terra e mi ero fatto male al ginocchio. Mi sanguinava pure.

Il suo era stato un fallo cattivo, intenzionale.

Mi guardò con sfida, poi s'allontanò senza neppure rispondermi.

A quel punto avrei dovuto preoccuparmi e non lo feci. Mi alzai, mi asciugai quel po' di sangue che mi colava dalla sbucciatura e tornai a giocare.

Fin da quando ci eravamo incontrati sotto casa sua non aveva detto che poche parole, poi il suo atteggiamento e gli interventi cattivi, fatti con l'idea di provocarmi. Non capii cosa stesse succedendo, non ne compresi la ragione, perché non mi avvidi che qualcosa accadeva.

"Se mi fai cadere un'altra volta" gli gridai, invece, mentre riprendevamo a giocare "comincia a correre, perché, se ti prendo, giuro che ti faccio piangere..."

Ma glielo dissi ridendo, perché volevo prenderlo in giro. Ero pentito d'avergli detto quelle parolacce, volevo scherzare, non farne un dramma. Lui invece cercò i miei occhi e parve fulminarmi. Credetti che scherzasse anche lui, che mi stesse sfidando con quello sguardo duro, il volto ostinato, dietro cui pensai di vedere un sorriso.

"Hai capito, biondino?" insistei.

"Devi prima prendermi!"

"Tu fammi cadere un'altra volta e poi vediamo..." e così ci sfidammo, anche se io ero convinto di scherzare.

"Per questo non dovrai aspettare molto!"

E mi caricò, a testa bassa, perché il gioco nel frattempo era ripreso e mi avevano appena passato il pallone. Mi colpì con una spallata ed io finii per terra, a gambe all'aria, sbattendo la spalla. Il contraccolpo mi stordì, ma non abbastanza per non scattare in piedi ed inseguire Paoletto che si era lanciato in una corsa pazza verso il mare.

Avevo smesso di pensare da un po' di tempo.

Il calcio mi ha sempre entusiasmato e quando lo giocavo, credo che mi venissero meno alcune categorie di giudizio, era così appassionante che spesso non riuscivo a badare a chi mi stava attorno. Se quel giorno l'avessi fatto, avrei notato che Paoletto non si comportava come al solito: era nervoso, accigliato, distratto. Se fossi stato meno emozionato, mi sarei chiesto o avrei chiesto a lui il motivo di quel mutamento. E avrei potuto mettervi riparo, perché la causa ero io.

E l'eccitazione del gioco non era diminuita neppure quando mi aveva colpito in modo così apertamente intenzionale. Era se possibile aumentata. Vederlo scappare, sfuggirmi era stato tutt'uno con la decisione di corrergli dietro, per fargliela pagare.

Era già sulla spiaggia, ma l'inseguii cercando di non perderlo di vista. Si buttò nella pineta e andò verso una costruzione diroccata che c'era nel fitto degli alberi. Lo vidi passare attraverso il portone. Era una vecchia costruzione, abbandonata da molti anni, che aveva conservato solo i muri, i solai e la scala che portava al piano superiore. La conoscevamo tutti, avendoci giocato un'infinità di volte.

Entrai nell'atrio e mi guardai intorno. Sapevo che, oltre quella principale, non c'erano altre uscite praticabili. E lui era già dentro. Se non era al piano terra, doveva per forza essere salito. Sentii uno scricchiolio e mi convinsi che era là. M'avventurai per le scale. Era sulla terrazza, una specie di loggia di pochi metri quadri con un parapetto piuttosto alto.

Quando lo raggiunsi, era appoggiato al muretto, con le braccia larghe e mi fissava con aria di sfida. Lo sguardo l'atteggiamento mi provocarono.

"Da qua certamente non esci..."

"Non mi hai ancora preso!"

La sua voce. Non l'ascoltai. Non come dovevo. L'avessi fatto. Era arrochita. Credetti fosse stata la corsa a fargli mancare il fiato, ma era l'ansia, la paura di ciò che poteva accadere, di ciò che aveva provocato.

"Invece si! Sto per prenderti" dissi senza controllarmi.

"Non avvicinarti!"

Ancora un segnale che era una preghiera. Ed io non capii.

"Ti do una possibilità" dissi invece "arrenditi e non ti faccio male, altrimenti è peggio per te e mi fermo soltanto quando cominci a piangere!"

Ero come impazzito. Avevo perso contatto con la realtà. Non mi sarei mai sognato di parlargli così, di minacciarlo, di fargli male, se non avessi completamente frainteso il suo comportamento. Non ero io, era la parte peggiore di me che voleva vendicarsi per i calci e gli sgambetti che mi aveva dato. Ma la partita di calcio e tutto il resto non c'entravano più, c'era una parte della mia anima che aveva deciso d'approfittare di quella situazione. Era una parte ancora più cattiva, più oscura, che aveva visto l'irripetibile occasione di toccarlo, di abusare di lui con la forza. Dopo tanti anni.

Per questo la mia eccitazione era totale e la mia ragione smarrita.

Lui l'aveva capito, perché mi guardò impaurito, ma non ancora vinto. Era preoccupato, mentre io ero sempre più esaltato. Avevo convinto me stesso che fosse tutto uno scherzo, un gioco, un sogno dal quale ci saremmo svegliati ridendo, sudati e sporchi di terra.

"Allora? Ti decidi?" gridai.

"Non ti avvicinare... per favore... Lasciami andare!"

"Se hai paura, arrenditi" e ridevo "prometto che non ti faccio male. Dai, arrenditi..." lo dicevo solo per aizzarlo, perché, conoscendolo come lo conoscevo, sapevo che non l'avrebbe fatto.

"Io... io stavo scherzando. Dai, andiamocene... per favore" mi pregò.

"No, no... troppo comodo. Ti ho avvertito e mi hai fatto cadere un'altra volta. Sei scappato e ti ho preso. Adesso è troppo comodo dire che era uno scherzo e basta. Ti arrendi?"

"No!"

E fece per scappare, venendomi addosso, poi tentando di scartarmi oppure di buttarmi per terra un'altra volta. L'afferrai. Ero più forte.

Conservo ancora, nella memoria, le sensazioni di quei momenti, ad una ad una.

Ciò che vidi, ascoltai, il suo odore, la pelle, il sudore, tutto quello che le mie mani toccarono, ciò che sfiorò il mio corpo, il rumore del mare, il profumo degli alberi, l'aria calda, impregnata di resina che arrivava dalla pineta. Non l'ho dimenticato, perché quel giorno scoprii quanto sia tenue il confine fra il gioco e la violenza, la sopraffazione. Come sia facile passare oltre e fare del male.

Lo bloccai e finimmo per terra, rotolando. Io quasi ridendo, lui, ed ancora non lo capivo, che cercava disperatamente di sfuggirmi. L'immobilizzai sotto di me. Arrivai a sentire l'odore della sua paura, che mi eccitò ancora di più. Lo toccai ovunque, poi mi rivoltai e sollevandomi a sedere, lo bloccai sul mio grembo. Con una mano gli tenevo le braccia, con l'altra lo colpii sul sedere una, due volte. Lui si dimenava inutilmente per liberarsi.

Poi improvvisamente mi accorsi che aveva smesso di lottare. Lo sentii irrigidirsi e ansimare, poi perdere completamente le forze.

Questo mi fece tornare finalmente in me e allentai la stretta.

Scivolò dal mio grembo fino a mettersi in ginocchio, accanto a me. Mi guardò e vidi che aveva gli occhi pieni di lacrime. Feci per accarezzarlo, si scostò con disgusto.

Lo guardai, poi il mio sguardo scese a fissargli l'inguine, perché anche in quel momento la mia mente ebbe quel pensiero e mi accorsi che si era bagnato. Non so come capii che aveva avuto un orgasmo, mentre lottavamo, quando lo colpivo. E compresi che era spaventato. Lo era sempre stato. Che forse durante la partita mi aveva aggredito solo perché era esasperato e voleva ottenere una mia reazione. Ma che quella reazione, cercata perché mi dichiarassi, l'aveva impaurito. E ciò che era accaduto, lo spaventava ancora di più. Aveva scoperto che ero un bruto.

Capii che, facendogli quello che gli avevo fatto, l'avevo umiliato e che non mi avrebbe mai perdonato per essermi comportato così.

Mi guardava e stava per piangere, ma non l'avrebbe mai fatto davanti a me. Tentai di accarezzargli una spalla e si allontanò per sfuggirmi. Si alzò in piedi senza più guardarmi e se ne andò.

Scomparve alla mia vista prima che riuscissi a scuotermi, porre un rimedio, ammesso che ne trovassi uno in quel momento. Poi lo sentii correre.

Finalmente mi alzai e tornai anch'io velocemente dove gli altri avevano continuato a giocare. Paoletto non era più là.

Ridendo mi chiesero cosa gli avessi fatto, perché era arrivato correndo e aveva preso senza chiederla la bicicletta di uno dei ragazzi. Era scappato senza dare spiegazioni, lasciando là anche la borsa.

Neanch'io mi fermai a spiegare e saltai sulla vespa per corrergli dietro, cercare raggiungerlo.

Per arrivare alla pineta c'erano un'infinità di strade possibili ed io ne percorsi un paio, poi desistetti, perché se lui non voleva farsi trovare, io non l'avrei trovato.

Tornai a casa e mi lavai. Incrociai mia madre e ci guardammo, ma corsi via.

Provai al reparto. Già sapevo che non era né ora, né giorno di riunione. Girai un po' nel quartiere, sperando di incrociarlo e non lo vidi. L'avevo evitato per tre anni ed ora cercarlo era un'impresa molto difficile per me. Girai come impazzito per la città e mi ritrovai vicino a quei giardini che per me avevano rappresentato la corruzione. Non ci ero più tornato, ma pensai anche che, se Paoletto avesse avuto una reazione simile alla mia, avrebbe potuto scegliere di fare come me. Là forse c'era ancora la stessa gente che mi aveva aiutato e poi corrotto.

Decisi di entrare a cercarlo: se fossi arrivato in tempo, l'avrei salvato. Era una sciocca fantasia, ma mi distrasse, dandomi la forza di varcare il cancello. Affrontai la camminata come fosse come un rito di purificazione. E lo fu davvero.

Seguii il percorso che avevo fatto tante volte, inoltrandomi fra gli alberi più fitti, dai rami bassi, che nascondevano panchine sempre in ombra. Non incontrai nessuna faccia nota, né, ovviamente, vidi lui. Temetti di soffrire ad avvicinarmi a quei luoghi, ma il pensiero che tenevo fisso a Paoletto mi protesse.

Scoprii con dolore di sapere tanto poco della persona che dicevo di amare, da ignorare il luogo dove avrebbe potuto andare a nascondersi dopo che l'avevo ferito un'altra volta.

E se non era in giro, non poteva essere che a casa. Doveva essere a casa. E là c'era nonna Luigia che, ero certo, avrebbe preferito sapermi morto. Ci andai, comunque, ma restai a guardare il portone, minacciosamente chiuso, poi mi feci coraggio e diedi una lunga scampanellata. La nonna rispose al citofono.

"Paoletto?" chiesi con voce flebile.

"Chi lo vuole?"

Mi aveva riconosciuto, non le sfuggiva nulla e la mia voce, anche se cambiata, doveva ricordarla, per quanto l'aveva odiata.

"Sono un amico!" le dissi poco convinto.

"Quale amico?"

Stava giocando con me.

"Nonna Luigia, sono io! Sto cercando Paoletto, è importante!"

"Ah! Tu sei quello che si droga" disse infatti "e che vuoi da mio nipote?"

"Ho solo bisogno di parlargli."

"Vattene! Lo sai quanto male gli hai fatto? Che altro vuoi?"

Avevo le lacrime agli occhi: come fare a convincerla delle mie buone intenzioni?

Sapevo di essere poco credibile e la mia presunta lealtà non lo era di più. Lei aveva tanti buoni motivi per avercela con me. L'unica speranza era che Paoletto fosse là e sentendomi la convincesse a farmi salire.

"Ho bisogno di parlargli!" dissi alzando la voce, augurandomi che Paoletto mi sentisse "Vuole che urli e gli dica tutto da qua sotto?"

"Vattene!"

"Mi faccia salire, posso spiegarle! Non mi drogo più da tanto tempo!" gridai, incurante di chi potesse sentirmi.

Silenzio.

"Sono stato anch'io al campeggio. E adesso siamo tornati ad essere amici."

"Lo so. Ti ho visto alla stazione, mentre tentavi di nasconderti. Se avessi saputo che c'eri tu, non l'avrei mandato!"

"Mi faccia salire. Se Paoletto non c'è, non deve temere. Possiamo parlare noi due? Devo dirle di Paoletto. Mi faccia spiegare. La prego, nonna..."

"Sali!" disse infine, quando non me l'aspettavo più.

Dunque Paoletto non era là: non mi avrebbe mai ammesso nella sua casa, se ci fosse stato lui. Perciò dov'era?

Cominciai a salire velocemente le scale, senza curarmi di dover raggiungere uno dei piani più alti. Mi fermai a riprendere fiato, poi continuai. Mi fece entrare.

"Allora?"

Non sapevo che dirle. Se dirle qualcosa. E comunque non avevo più il fiato per proferire parola. Tutte quelle scale e poi la mia audacia che si era trasformata in panico. La paura di avere perso per sempre Paoletto mi assalì.

"Devo parlargli" riuscii a dire alla fine, con la voce strozzata dall'affanno "oggi abbiamo litigato e lui... voglio spiegargli. Mi dica dov'è. Devo parlargli e poi, se lo vuole, non mi vedrà più! Nessuno mi vedrà mai più!"

"Paoletto è piccolo e tu lo devi lasciar perdere."

"Si lo so. Lo farò, ma prima devo vederlo. La prego. Devo spiegargli..."

"Perché? Non ti basta essere sparito tre anni fa?" mi stava assalendo.

Prima di rendermene conto avevo sollevato le mani, le braccia, e me le ero portate davanti al viso, per proteggermi, non dagli schiaffi che poteva darmi, ma da quello che mi stava dicendo. Dalla memoria orribile dei quei momenti.

"Ti abbiamo cercato, sai? Dov'eri?"

Ma poteva anche colpirmi

"Dov'eri quando quel bambino piangeva?" insisté lei "Non ha mangiato per giorni... ed io lo so che è stata colpa tua. Che gli hai fatto allora? E che gli hai fatto oggi?"

Sicuramente la mia espressione l'impietosì, perché improvvisamente cambiò tono:

"Lo sai che mi ha telefonato tua madre? Era preoccupata per te."

"Mia madre? Che ha detto?"

Ero sconcertato. Prima che uscissi ci eravamo guardati e lei doveva avermi letto negli occhi tutta l'angoscia che mi opprimeva. Come aveva potuto collegarla a Paoletto? Non avevamo scambiato neppure una parola. Solo sguardi, ed erano bastati?

"Che ha detto?"

"Che forse avevi litigato con Paoletto ed era molto preoccupata per te e per il mio ragazzo."

"Allora devo andare a rassicurarla..."

Ero completamente smarrito, il mondo mi stava crollando attorno. L'equilibrio di mia madre era precario, le emozioni la prostravano ed ero riuscito a darle uno scossone, facendola preoccupare per me. Con la mia leggerezza avevo combinato un altro guaio. Mi ero lasciato trascinare in un gioco che non avevo saputo condurre e per giunta ero praticamente andato a chiedere aiuto a lei.

"Ho cercato di tranquillizzarla, le ho detto, se ti avesse visto, di farti venire qua di corsa, che avrei messo tutto a posto. Tu ora chiamala, dille che sei qua, che non si preoccupi."

Lo feci.

"Che hai deciso di fare da grande? Sempre che arrivi a crescere?"

Non capii subito il senso di quella domanda e mi sorprese la calma con cui risposi: "Mi iscriverò a medicina, credo che andrò a studiare a Vienna."

"Sarebbe bene che tu andassi il più lontano possibile!"

Voleva che mi staccassi da suo nipote. Era giusto così, che potevo fare?

Eravamo in piedi, io appoggiato alla porta e lei ritta, davanti a me, che mi fissava con gli stessi occhi di Paoletto, resi piccoli dall'ostilità che provava nei miei confronti. Lei e Paoletto si assomigliavano molto, ma non in quel momento.

"Vai a cercarlo" mi disse dopo un lungo silenzio, durante il quale mi guardò, giudicandomi molto male "Ti dirò dov'è andato, perché ho pietà di tua madre. E perché mio nipote ti vuole bene, nonostante tutto. E non so come faccia. Ma se lo fai piangere un'altra volta" pareva volesse lanciarmi una maledizione, ma non era così, si preparava a minacciarmi e da come mi guardò seppi che sarebbe stata perfida e insensibile "se vedo Paoletto piangere un'altra volta per colpa tua, farò in modo che tu debba pentirti di non essere morto quando ti drogavi. Tu non sei degno di tuo padre. Non meritavi d'avere un padre come quello ed ora non meriti l'amicizia e l'amore di mio nipote!"

Ero scosso dai brividi. Non era paura per quella minaccia o di quello che aveva detto su mio padre, perché lo pensavo anch'io.

Avevo paura, perché avevo capito che nonna Luigia sapeva tutto di me. Di Paoletto, di noi.

"Lui mi ha detto una cosa" mormorò "che se è vera, non la capisco..." era smarrita, il che era assolutamente inconsueto in lei "Mi ha detto che siete omosessuali. Tu e lui. È vero?"

Che ne sapevo, se era vero? Ero sempre stato molto attento a non dare neppure a me stesso risposte dirette ed ora una donna di settant'anni me lo chiedeva apertamente e pretendeva di sapere, che le dessi una risposta. Ed io dovevo dirle la verità o andarmene e rinunciare a Paoletto.

Se fosse stata mia nonna, che pure amavo tanto, sarei fuggito, ma anche il tempo delle fughe pareva finito. E Paoletto mi aspettava. Ero certo che mi stesse aspettando.

"Credo... credo che sia vero" balbettai "Per me, almeno, è come ha detto lui."

Parve sgonfiarsi, il suo portamento eretto, la fierezza con la quale mi aveva affrontato, svanirono e, per la prima volta, vidi in lei una donna anziana. Notai i capelli bianchi, il collo rugoso, le mani macchiate di efelidi. La vidi ingobbirsi sotto i miei occhi. Andò a sedersi sulla panca che era nell'ingresso.

"Sei stato tu? L'hai convinto tu?" disse con un filo di voce.

Temevo che quella domanda arrivasse e non avevo pronta alcuna risposta.

"Non lo so" dissi "ma ho fatto di tutto per non fargli del male. Mi deve credere. Ho fatto tutto quello che potevo e non è servito a nulla."

"Anche lui dice così, che tu non c'entri. Ma io non gli credo. E poi ha detto che è colpa sua se tu ti sei drogato."

"Davvero dice così?"

"Si, lui dice questo e io non ci credo. Lo fa per difenderti. E mi ha detto altre cose che non volevo sentire, ma è mio nipote e io lo amo lo stesso, non mi importa com'è."

"Davvero dice così? Dov'è adesso? Per favore!"

"È a casa di Giulio. Ma ricordati quello che ti ho detto! Se lo fai piangere..."

E non era più una minaccia, ma un avvertimento affettuoso.

Non l'avrei fatto piangere. Mai più.

Paoletto ed io non avremmo potuto essere più diversi, non tanto fisicamente, anche se lui era biondo e chiaro, io bruno e un po' scuro di pelle, lui snello e con un'andatura dinoccolata, io più robusto, sempre dritto e rigido quando cammino. Le differenze maggiori però erano nelle nostre personalità che avevano caratteristiche opposte e solo qualche volta complementari.

Io sono molto ordinato, lui era un pasticcione. Io sfuggo alle mie responsabilità, lui le aveva sempre affrontate. Io dico spesso bugie, lui mai, anche a costo di essere considerato maleducato.

Diceva la verità a tutti. Lo fece sempre. L'aveva fatto anche quel giorno.

Arrivai trafelato sotto casa di Giulio, lasciai il motorino in un angolo, con il rischio che me lo rubassero. Non ci badai.

Suonai il campanello e sentii che quasi immediatamente qualcuno si mise in ascolto al citofono.

"Paoletto sono io. Aprimi!"

"Sali, Paoletto è qua!"

Anche quello era un palazzo molto alto e Giulio abitava l'attico.

Salii a rotta di collo, ignorando l'ascensore. Feci di corsa più di dieci piani, prima che una tremenda stanchezza mi facesse cadere. Ero quasi arrivato, ma le gambe mi vennero meno e scivolai al momento di attaccare l'ultima rampa. Mi feci male alle dita e restai raggomitolato, come per proteggermi. Tentai di controllare il mio respiro. Ero trafelato per la corsa e intimidito da quello che stavo per fare.

Se lui era offeso in modo irreparabile. Se avevo travisato tutto o se nonna Luigia aveva equivocato le parole del nipote. Se lui mi avesse respinto e avesse riso di me. Se, ed era la peggiore di tutte le ipotesi che mi avevano incalzato mentre correvo da una casa all'altra e salivo precipitosamente quelle scale infinite, se Paoletto per amicizia avesse dato quella spiegazione e avesse deciso di assecondarmi non per amore, ma solo per non ferirmi. Tutti quei se mi stordivano, assieme all'ossigeno che disperatamente cercavo di inalare. Cominciò a girarmi la testa. Me la presi fra le mani. Mi girò tutto attorno.

Volevo fermare le scale, il soffitto, le luci che l'illuminavano e che mi volteggiavano intorno.

Sentii una mano sulle spalle. Era Giulio. Capì subito cosa mi era capitato.

"Sei salito a piedi. Ora calmati, cerca di controllare il respiro."

Anche lui era medico. Me lo ricordai e mi fece pensare a mio padre. Un altro motivo per piangere.

Si sedette accanto a me sugli scalini.

"Mia madre l'ha mandato qua, perché quello che Paoletto le ha rivelato è troppo complicato per lei. Voleva che lui lo spiegasse anche a me. Ne abbiamo parlato... e ci siamo detti molte cose."

Eravamo imbarazzati. Non so chi di noi due lo fosse di più. Quel giorno pareva che tutti dovessero sapere che ero omosessuale e non ero ancora preparato a quella rivelazione. E lui era a disagio, perché forse non aveva mai parlato ad un omosessuale cui voleva un po' di bene.

Non riuscii a spiccicare parola, stavo ansimando.

"È vero quello che dice Paoletto?"

"Credo di si!" dissi, ancora boccheggiando.

Se doveva essere la giornata delle rivelazioni, che lo fosse, ma fino in fondo.

"Se è così, io... credo che voi due dobbiate spiegarvi, ma fatelo per bene. E poi, se ne hai voglia, parlane anche con me. D'accordo?"

"Si, se vuoi..."

Mi aveva sempre trattato con affetto ed io provavo per lui gli stessi sentimenti. Sapevo di potermi fidare. Aveva sempre fatto il meglio che poteva per Paoletto e in quel momento, pensai che l'avrebbe fatto anche per me.

"Ora te la senti di entrare?"

Gli dissi di si, ma avevo ancora l'affanno.

Mi aiutò ad alzarmi, mi mise un braccio sulle spalle e mi accompagnò in casa.

"Vai. Lui è di là!"

Fece cenno ad una camera che sapevo era il suo studio. Mi accarezzò sulla spalla, poi lo sentii andarsene, chiudere la porta dietro di sé. Rimasi da solo con Paoletto.

Arrivai davanti alla porta e rimasi bloccato, senza potermi muovere.

Quella era la fine del viaggio, di quasi tutto il mondo in cui avevo vissuto, se ne avevo uno, se avevo vissuto davvero, se vita poteva essere stata la mia, fino a quel giorno. In ogni caso, tutto sarebbe accaduto entro pochi minuti. Avrei saputo e si sarebbe deciso di me.

Avevo troppo sofferto per non essere spaventato. Mi tremavano le gambe, avanzai trascinandole.

Lui era alla finestra e guardava fuori.

"Mi vedi?" disse piano, senza girarsi, quando capì che ero sulla soglia.

Non gli risposi. Non capii, perché me lo chiedesse, ma sentivo che era risentito.

"Mi vedi?" ripeté con una voce calma che mi spaventò di più.

Si voltò a fissarmi ed io abbassai gli occhi.

"Paoletto..." mormorai.

"Non dire stronzate e guardami!"

Li alzai e ci fissammo. Il suo sguardo era risoluto, il mio non lo so.

"Mi vedi? Sono qua, davanti a te e aspetto! È arrivato il momento di dirmelo" parlava con una voce piana, che pareva distaccata, indifferente, ma era così per la tensione che provava "Se tu l'avessi fatto tre anni fa, ti avrei dato la stessa risposta che ti darò fra un poco, se ti deciderai a parlare. È da quando ti ho visto la prima volta che mi sono innamorato di te, stronzo, stronzo, stronzo che non sei altro! E tu non l'hai capito!"

Per il tono esasperato la voce era tornata acuta, proprio com'era solo tre anni prima. Mi appoggiai alla porta, sopraffatto da quelle parole, da quei suoni.

"Tutte le volte che hai tentato di toccarmi" continuò "tutte le volte che sei arrivato vicino a parlarmi, a dirmi quello che davvero provavi per me, credevo d'impazzire dalla felicità. Tu, invece, ti bloccavi, diventavi strano. Quando sei sparito, sono arrivato a sbattere la testa contro la spalliera del letto, per vedere se mi faceva più male di quanto ne provavo, perché credevo che non t'avrei più rivisto.

"Poi, col tempo, ho capito che avevi avuto paura. Adesso lo so. Ho capito che è stata la paura a farti scappare. Anche ora vorresti fuggire, ma sarebbe l'ultima volta che lo fai. Per noi non ci saranno altre occasioni!"

Si voltò.

"Sai qual è stato il tuo unico atto di coraggio?" disse, accalorandosi "Lo sai qual è stato?" gridò "Andartene, sparire! E sai come ci sei riuscito? Sai perché l'hai fatto? Te ne sei andato, perché eri preoccupato solo di te stesso. Fregandotene di me che ti piangevo dietro, scendendo da quella maledetta montagna" gridò "Tu mi hai abbandonato là sopra, perché hai avuto paura di perdere quello che possedevi, quello che eri! E sai che cosa mi sono chiesto in ogni momento in questi tre anni? Lo vuoi sapere? Lo vuoi sapere?" ripeté.

"Si..." mormorai io scioccamente.

"Mi sono chiesto come ho fatto ad innamorarmi di te!" gridò disperato "Come sono stato stronzo!"

Si voltò un'altra volta a guardare fuori dalla finestra. Sapevo che di là si scorgeva un panorama meraviglioso. In quel momento, mentre attendevo che parlasse ancora, perché ora sapevo che mi amava. Mentre aspettavo, che mi perdonasse, perché sapevo che l'avrebbe fatto, vidi con i suoi occhi il tramonto che aveva davanti. Il cielo e il mare rossi di fuoco. Le prime luci che si accendevano sulla montagna e sotto il mare, il porto, le navi.

So cosa vide e forse furono quei colori a rendermi intatto il suo amore, perché lui decise di scordare tutto il male che gli avevo fatto.

Sapeva tutto e meglio di me e mi aveva appena rivelato anche quello che io stesso mi rifiutavo di accettare.

"Stammi a sentire" disse quando si fu un po' calmato "Senti e capisci bene quello che devi fare: io lo voglio sapere, voglio che tu me lo dica. Se mi ami, dillo ora oppure vattene molto lontano. E soprattutto fai in modo che non ti veda mai più!"

E andò a sedersi allo sgabello che era davanti al pianoforte, con le braccia abbandonate lungo il corpo, le mani aperte. Forse stava per piangere e io avevo le lacrime agli occhi. Ora che l'aveva detto, era svuotato dalla fatica che aveva fatto. Come se per dire quelle parole avesse dato fondo ad ogni sua energia. E così era stato.

Toccava a me ora, se ne avessi trovato la forza.

Scoprire a diciotto anni di averne vissuti tre molto male e di aver sofferto inutilmente, mi aveva sconvolto. Pensai ai miei genitori, ai miei nonni che non avevo voluto più rivedere, a mio zio che amavo, a qualche amico che avevo abbandonato e cui era importato qualcosa di me. Avevano patito per il mio comportamento ed era stato tutto inutile, perché avevo sbagliato a giudicare Paoletto. Nella mia incoscienza, immaturità, egoismo, presunzione, mi ero addossato colpe che non avevo. E mi ero dato il compito di punirmi e di redimere me stesso. Anche di salvare Paoletto da una malattia che non aveva, che non era tale, perché era soltanto innamorato e l'amore non è mai un vizio. Perché lo capivo solo allora e a quel prezzo?

Mi sentivo stordito. Mi coprii gli occhi con le mani per non vedere, poi cercai di coprirmi le orecchie, perché ero frastornato. Mi pareva di ascoltare tutte insieme le voci di chi avevo deluso. Cominciai a piangere.

In quel baccano immaginario, ingannevole, distinsi la voce dolce e ferma di Paoletto:

"Non piangere. Non disperarti, non farti ancora del male. Voglio soltanto una risposta. È tanto che sto aspettando!"

"Certo che ti amo!" gridai spazientito, fra le lacrime.

Cercai di calmarmi, di tornare a respirare normalmente.

E volevo sentirglielo dire, volevo che lui me lo dicesse ancora.

"E tu mi ami?"

"Si, sempre!"

"Da quando?"

"Te lo ricordi Mozart? La marcia turca?"

"Si...?"

"Quel giorno c'è stato il mio imprinting. Ti ricordi?"

"Si!"

"In tutti i sensi... davvero!"

Stentavo a connettere i pensieri, a separare le sensazioni dalle emozioni che mi sconvolgevano, ma lo vidi arrossire. Lo capii da un movimento della testa, più che vederlo.

"È stato proprio così" era tornato alla sua voce dolce ed aspra, affettuosa, di adolescente "All'inizio non avevo capito, ma ci misi poco. Per me diventasti la persona più importante del mondo e lo sei rimasto, sempre. Prima ti volevo bene, come se tu fossi il mio angelo custode, poi, a poco a poco, diventasti molto di più e poi tutto quello che potevo immaginare!"

Ciò che mi aveva appena detto l'avevo ben capito e racchiuso nel cuore, nessuno me ne avrebbe più privato. Mi amava e io l'amavo: non sapendo abbastanza della vita, credetti di poterla giocare e mi convinsi che quello che ci eravamo confessati fosse eterno.

La vita ha poi avuto modo di mostrarmi quanto mi sbagliassi.

Eravamo spossati. Nello studio, in penombra, perché s'era fatto quasi buio. Nessuno dei due aveva la forza di muoversi, di avvicinarsi.

Poi lo facemmo insieme, per abbracciarci stretti.

Non ci furono parole, né altri gesti. Solo quell'abbraccio, serrato, forte, tanto da impedirci di respirare. E fu solo quel disagio a farci sciogliere. Stemmo uno di fronte all'altro, le mani nelle mani a guardarci, accarezzandoci con gli occhi. Timorosi di allontanarci anche un solo centimetro, quasi temendo di perderci un'altra volta.

"Andiamo?" mormorò dopo un tempo che non seppi misurare e si avviò verso la porta, tenendomi per mano "Zio Giulio capirà. Ne abbiamo parlato prima e mi ha convinto ad aspettarti qua. Lui sapeva che saresti venuto."

Quando fummo di sotto salimmo sul motorino e mi avviai.

Mi stringeva da dietro e lo sentivo aderire a me. Il suo respiro divenne il mio. La stretta si fece più forte e sentii che piangeva. Cercai di voltarmi, ma lui mi tranquillizzò.

"Non è niente, non preoccuparti. È che sono contento!"

Con le sue lacrime mi bagnò il collo e la camicia. Tenne gli occhi chiusi, schiacciati contro la mia nuca e pianse. Continuai a girare per la città senza una meta, anche dopo che si fu calmato. Poi la sua stretta si fece più delicata e le sue mani mi accarezzarono i fianchi. Capii che stava sorridendo e poi ridendo.

"E se ti facessi il solletico?"

"Cadremmo e finiremmo in ospedale!"

"Credi che ci metterebbero in due letti vicini?"

Continuai a guidare con Paoletto che mi abbracciava ed era tutto quello che desideravo. Per la prima volta mi abbracciava davvero, con un sentimento che comprendevamo e condividevamo, anche se avevamo appena scoperto di amarci da anni.

Ero ancora frastornato da quella rivelazione. Desideravo che lui mi spiegasse molte cose ed io avevo tanto da raccontargli. Avevo fretta di sapere e che lui sapesse di me, ma continuai a girare. Sentivo il suo respiro. Stava con il mento appoggiato sulla mia spalla ed ero certo che per la maggior parte del tempo aveva tenuto gli occhi chiusi. Dopo che si era calmato ed avevamo scherzato un po', non aveva più parlato.

Improvvisamente mi preoccupai che fosse pensieroso, in ansia per quello che era accaduto o per qualunque altro motivo.

"Sei stanco?"

Mi sussurrò un no nell'orecchio, facendomi un po' di solletico.

"Ci fermiamo? Ti va?"

"Si!"

Tornai verso il nostro quartiere. Arrivai a casa.

La mia famiglia ha sempre abitato in un villa, circondata da un giardino che d'estate si riempie di profumi. Ci sono alberi di agrumi, piante di gelsomino e cespugli di caprifoglio. La casa e il muro di cinta sono coperti di rampicanti e buganvillee centenarie. Ovunque l'aria è impregnata dell'odore dei fiori.

Lo lasciai per un momento in giardino e andai ad avvisare mia madre del nostro rientro, poi tornai dal mio amore. Andammo a sederci su una panchina addossata al muro di cinta, sepolta da una buganvillea, nascosta alla casa da un grande albero di prugne. I rumori della strada ci arrivavano filtrati dai rami della pianta che è davvero enorme. Protesse il nostro amore e la nostra intimità.

Avevamo molto da dirci, ma invece di raccontare, spiegare l'uno all'altro, ci sedemmo a guardarci. Poi gli presi le mani. Mi avvicinai a sfiorargli le labbra con un bacio.

"Tua madre?"

"Non viene mai in giardino. Le ho chiesto di avvisare tua nonna che siamo qua. Perché non si preoccupi."

Si avvicinò di più a me. Mi appoggiò il capo sulla spalla e chiuse gli occhi. Credo che l'abbia fatto, solo perché era ormai buio e proprio nessuno poteva vederci. Le luci della casa non arrivavano ad illuminare quell'angolo. Capii che aveva chiuso gli occhi, quando il suo respiro si fece regolare, come se dormisse. Furono la quiete del posto e la serenità di quel momento a calmarlo di tutte le ansie e i pensieri che aveva vissuto quel giorno ed anche prima, fino a molto lontano. Lo cinsi con un braccio e chiusi anch'io gli occhi. Mi lasciai scivolare in quella specie di assopimento, di quiete raggiunta.

Sarebbe venuto il tempo delle parole, delle spiegazioni. Avremmo parlato, perché per essere una persona sola, come volevo che fosse, dovevamo sapere tutto ed annullarci nell'altro. In quel momento però ogni parola era inutile, ogni azione superflua. Ci facemmo ancora più vicini e i nostri respiri furono un unico soffio, un corpo si adattò a sostenere l'altro, ad esserne parte.

Non so quanto tempo trascorremmo così, ma di quella notte ricordo l'odore dei gelsomini e dei caprifogli che ci inebriò, fino a stordirci. E la brezza che saliva dal mare, poco lontano. Furono gli odori di quella estate di sogno.

"Ti amo, Roby."

L'avevo sognato ed accadeva. Mi amava: non era un'allucinazione, stavo vivendo davvero quei momenti. Fu allora che mi staccai da me per vedermi abbracciato a lui. Stringerlo per dirgli che l'avevo sentito e che anch'io l'amavo.

"Sei il mio amore. Lo sei sempre stato. Non so come ho fatto a resistere dal venire a cercarti per drogarmi con te e fare tutto quello che facevi tu. Provare le stesse cose e poi trascinarti via. Farti tornare con me."

Sentirglielo dire mi spaventò, ma capii che era stato solo un proposito ed ora erano parole d'amore. Lo vidi parlarmi con gli occhi chiusi, in un soffio. Quelle frasi non mi giungevano attraverso le orecchie, perché lui quasi non emetteva suoni, ma erano già dentro di me nel momento in cui le pensava.

"E quando tuo padre è stato male... volevo venire, ma non ne ho avuto il coraggio. Perdonami. Avevi bisogno d'aiuto, non è vero?

"Poi ho pensato che avrei aspettato l'estate, la fine della scuola e sarei venuto a dirti tutto. Che avevo capito. Ti avrei affrontato. Avrei detto che ti amavo. E poi tu avresti deciso per noi due."

L'accarezzai. Non riuscivo a pensare. Avrei voluto dirgli molte cose, ma le parole che mi venivano alla mente erano sconnesse, disarticolate. Sapevo che se ne avessi pronunciato anche una sola sarei scoppiato in lacrime e non avevo più voglia di piangere. O forse non avevo più lacrime. Oppure infine credevo, a torto, che non ne avrei avuto più bisogno. In quei momenti ricordo di aver articolato un solo pensiero compiuto, che non sarei mai riuscito a far l'amore in una macchina. E poi Paoletto, il suo capo su di me, pensavo a lui che profumava di borotalco e innocenza. Pensai a Marco e al suo regalo, un regalo d'amore. Anche lui mi aveva amato davvero. Non l'ho mai ringraziato.

La buganvillea fu scossa dal vento. Era il mare. Sentii il rumore delle onde. Si stava alzando il maestrale. Mio padre conosceva i venti. Aveva promesso e mai mantenuto di insegnarmi ad andare in barca a vela. Ma era stato per colpa mia. Un giorno d'estate, di quella estate lontana, l'ultima che aveva trascorso prima di ammalarsi, me l'aveva proposto. Un po' a denti stretti, spinto da mia madre. Ed io avevo rifiutato, arrivando a deriderlo. Gli avevo gridato che era troppo tardi. Che mi desse i suoi maledetti soldi perché volevo andarmene ad Amsterdam.

"Stiamo insieme?" mi sussurrò.

Me n'ero andato un'altra volta lontano con i pensieri, fui felice di svegliarmi e scoprire che avevo appena avuto un incubo e che ora la realtà era il sogno.

Alzò il capo e mi fissò. Per essere certo che lo capissi:

"Siamo fidanzati, Roby?"

"Si. Penso che sia così."

"Vuoi davvero essere il mio fidanzato? Sei sicuro?"

"Si. Mi sembra di sognare."

"Allora è vero che mi ami?"

"Si. Ma tu lo sai che sono stato all'inferno?"

"Ed è stato per colpa mia."

Gli sfiorai la bocca perché non parlasse.

"Non è stata tua o mia."

"Mi racconterai?"

"Ti dirò tutto quello che vorrai ascoltare!"

"Perché? Ci sono cose che non vorresti dirmi?"

"Cose che forse non vorrai sentire."

"Quali per esempio?"

"Ho fatto... alcune mie azioni non sono belle da raccontare."

"Quali?"

"Sono cose difficili da dire!"

"Voglio sentirle lo stesso, ma non ora."

Il suo sguardo si fece pensieroso: "Anch'io devo dirti una cosa difficile. È importante. E devo dirtela subito: avrai pazienza con me?"

Vide che non capivo.

"Devo imparare... mi devi insegnare, perché io non so nulla di quelle cose che si fanno... quando si è fidanzati. E oggi mi hai fatto paura! Quando mi hai afferrato, io... poi sono scappato per la vergogna."

Finalmente capii e la sua completa innocenza finì per commuovermi. Due lacrime mi sfuggirono. Quanto eravamo diversi: io sapevo il peggio di tutto e lui nulla, nulla in assoluto.

"Ti prego, non piangere!"

"Piango perché sono emozionato. Perché tu mi sorprendi sempre. E sono felice. Ma oggi mi sono comportato da stupido e ti ho fatto male."

"No! Non mi hai fatto male. Ma ho avuto paura che tu volessi farmi delle cose che io non capivo."

"Non succederà mai più!"

"Me lo prometti?"

"Si!"

"E avrai pazienza?"

"Faremo sempre come vorrai tu. Solo quello che vorrai!"

"Ma io non so quello che voglio."

"Scommettiamo che fra un momento lo saprai?"

Gli presi la mano e gliela baciai. Le mie labbra erano umide, il mio bacio fu tenero e lui immediatamente capì quello che intendevo, perché mi strinse nel suo abbraccio e cercò la mia bocca per baciarmi. Quando ci staccammo, dopo un tempo che non ricordo, ma che fu lungo, furono i suoi occhi a provarmi che aveva capito.

Allora mi alzai e l'attirai a me. Ci baciammo, ma i nostri corpi non arrivarono a sfiorarsi, solo le labbra si congiunsero. Non era ancora il momento.

Per quella sera fu tutto: eravamo castamente fidanzati, ma cosa fossimo esattamente non lo sapevamo. In quegli anni due uomini, due ragazzi come noi, non potevano promettersi nulla che non fosse la propria fedeltà e noi lo facemmo, promettendoci amore per tutta la vita.

"È così che ci si bacia?"

"Ci sono altri modi."

"E tu che ne sai?"

"Sei geloso?"

"Non te lo ricordi più?" chiese con aria di sfida.

Lui era così. E l'amavo per questo.

Rividi, in una luce completamente nuova, gli anni trascorsi insieme. Riconobbi le scenate di gelosia che il mio innamorato mi aveva fatto. I suoi musi lunghi, i dispetti che avevo scambiato per capricci. Mi aveva sempre amato ed era stato terribilmente geloso di me, finché non l'avevo abbandonato. E la sua sofferenza doveva essere stata superiore alla mia, perché aveva subito capito di esserne egli stesso la causa.

"È perché mi ami?" dissi.

"Credo di si."

L'accompagnai a casa. S'era fatto tardi. Promettemmo di rivederci al mattino. Non voleva lasciarmi andare. Mi prese la mano.

"Siamo fidanzati... ma non è troppo presto per noi, non siamo piccoli!" tentava di tranquillizzarmi, perché sapeva che ero già preoccupato "Non pensarlo neppure. Pensa che doveva accadere già tre anni fa. Forse sono stati tre anni sprecati. Lo sai?"

Allora non immaginavo neppure quanto fosse vero.

L'accarezzai. Non c'era nessuno per strada. Ci abbracciammo ancora.

"A domani."

"Dormirai?" chiese.

"Non credo!"

"Io si, invece! Sono stanco morto!"

La tua innocenza ti aiuterà a dormire, amore mio, ma io veglierò, perché devo pensare.

Era la sera del tredici agosto 1978. Avevo diciotto anni, tre mesi, giorni, e qualche ora, essendo nato poco dopo le dodici del primo di maggio del 1960, stesso giorno e mese di mia madre e di mia nonna. Strana combinazione.

Paoletto era di tre anni e dieci giorni più giovane di me, essendo nato il 10 di maggio del 1963. L'amavo tanto.

La mia vita, le nostre vite cambiarono.

lennybruce55@gmail.com

Next: Chapter 7


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