DISCLAIMER: The following story is a fictional account of young teenage boys who are in love. There are references and graphic descriptions of gay sex involving minors, and anyone who is uncomfortable with this should obviously not be reading it. All characters are fictional and any resemblance to real people is purely coincidental. Although the story takes place in actual locations and establishments, the author takes full responsibility for all events described and these are not in any way meant to reflect the activities of real individuals or institutions. The author retains full copyright of this story.
Questo è il quinto degli otto capitoli che compongono questo romanzo.
Altri Viaggi
- PAOLETTO
Al campeggio ero cambusiere.
È un compito, una parola, che fa pensare alle navi, ai marinai, ma va bene anche per un campeggio di scout. Come mi aveva promesso Marco, dovevo provvedere alle necessità di una trentina di persone, rifornendole di quello che serviva. Non era complicato, ma molto faticoso ed era esattamente quello che cercavo. Potevo far tutto impiegando una piccola parte del mio cervello, lasciando il resto a fare pensieri più o meno gradevoli, dato che i miei compiti mi impegnavano solo da un punto di vista pratico.
La vita del campeggio era dura, proprio come me la ricordavo. Trascorsi la mattina del primo giorno in paese, poco più di quattro case, ad accordarmi con il panetterie perché ci portasse il pane ogni mattina. Parlai con il fruttivendolo che, assieme al pane, nei giorni successivi, ci avrebbe mandato anche la frutta. Feci lo stesso con il macellaio.
Tornai a piedi, quattro chilometri sotto il sole, carico di pacchi e buste. Più volte, a causa del caldo, mi fermai ad asciugarmi il sudore e a maledire il momento in cui avevo accettato di venire al campeggio. Sapere che l'avevo fatto per Paoletto, in quei momenti, non mi consolava. Ma era un modo per scherzare con me stesso, perché sapevo che per Paoletto sarei andato anche ai lavori forzati. E infatti ero là, su una strada polverosa, a tre chilometri da un campeggio di trenta scout molto rumorosi, carico di pacchi, sudato, sporco, accecato dal sole, ma ero anche piuttosto sereno sul mio futuro, fortemente cosciente di me stesso, di ciò che ero, tanto cosciente da esserne spaventato. Ed ero spaventosamente felice. Nel senso che ciò che provavo mi impauriva e l'idea di svegliarmi da quel sogno, alla fine del campeggio, già mi sgomentava.
Trascorsi quei primi giorni a curare piccoli tagli, escoriazioni, qualche raffreddore, a distribuire generi alimentari, ad occuparmi che non mancasse nulla perché il campo funzionasse. Desideravo stancarmi e ci riuscivo facilmente. Ma là, tra le montagne, al tramonto, la stanchezza diveniva languore, turbamento, che si trasformava in dolore fisico. Allora, per proteggermi da quella sofferenza, mi accoccolavo davanti alla tenda che serviva da cambusa, mi stringevo abbracciandomi le gambe e cercavo Paoletto con gli occhi, ne seguivo i movimenti.
Era bello, il suo corpo era armonioso, aggraziato, agile, mentre l'osservavo. Me ne stavo a guardarlo per tutto il tempo che era possibile, poi qualcuno mi chiamava, c'era bisogno di me e la mia fantasia terminava. Lui spesso s'accorgeva dei miei sguardi e si fermava a fissarmi. Allora i nostri occhi si incontravano e tutto terminava con un sorriso: il mio esitante e impaurito, il suo, aperto, felice.
Ogni giorno aumentava in me la convinzione che Paoletto fosse contento di avermi vicino.
Durante la preparazione al campo, nei giorni prima della partenza, eravamo tornati a vederci ogni sera al reparto, ma avevo capito che il nostro rapporto era ancora molto lontano dalla confidenza che avevamo raggiunto anni prima. Eravamo cambiati. Le nostre strade si erano incrociate ancora, ma eravamo stati lontani per troppo tempo. Avevamo vissuto le nostre vite in modo diverso. E prima ancora, io l'avevo tradito. Non potevo sperare che non lo ricordasse, era naturale e comprensibile che provasse diffidenza nei miei confronti. Capire ed accettare queste conclusioni mi fece molto soffrire, per quanto fossero ovvie e prevedibili.
Notai che era molto prudente quando ci parlavamo, molti nostri discorsi si arenavano prima ancora di avviarsi, per l'imbarazzo che entrambi provavamo nel ricordare il passato. Molti dialoghi restavano sospesi davanti ad un ricordo, ad un episodio che ci riportava a momenti cui non potevamo avvicinarci neppure con la memoria, per paura di farci male un'altra volta. Non ancora almeno. E questo ci metteva a disagio.
E se da parte mia quelle esitazioni erano connaturate al mio carattere, in lui non avevo mai conosciuto altro che il candore della sua innocenza. Ma l'avevo lasciato poco più che dodicenne, mentre ora era cresciuto, cambiato, maturato ed io avevo trovato un ragazzo riflessivo e attento, che era giustamente cauto nel lasciarsi coinvolgere un'altra volta in un'amicizia che era stata molto ambigua. Perché lui doveva aver colto la reale natura dei miei sentimenti. Non era ingenuo, non lo era mai stato, che ricordassi. Me ne convinsi, una sera, prima del campo, durante una di quelle discussioni che sembrano importantissime solo se si fanno quando si è ragazzi.
Parlando ad un altro, ma guardando me, aveva detto:
"Noi siamo quello che siamo, ma spesso sono gli altri che ci rendono buoni o cattivi! Qualche volta possiamo mettere poco di nostro. Per te io sono come mi vedi o come vuoi vedermi?"
Il ragazzo, disorientato da quella domanda, non gli aveva risposto.
"Tutti avete un'immagine di me" aveva continuato "ma quel che vedete non è ciò che sono davvero. E non sapete quanto io sia diverso!"
I ragazzi stavano commentando un brano di qualche sacra scrittura. Era una riunione dei più grandi e mi ci ero infilato solo perché aspettavo che lui si liberasse per averlo tutto per me. Non che per dopo avessimo in progetto chissà che, ma saremmo stati vicini e questo, in quei giorni, era sufficiente alla mia felicità. C'erano anche gli altri capi, Marco e Tonio, e lo stesso sacerdote che ora imperversava sulle anime di quei poveretti, dopo averlo fatto qualche anno prima anche sulla mia. Ritrovandolo dopo tutto quel tempo, non avevo scambiato con lui più di qualche parola: io mettendo subito in chiaro che ero là per provvedere al loro sostentamento al campo e che della mia anima sapevo ormai prendermi cura da solo, lui lasciandomi capire che di anime come la mia il suo dio non voleva saperne proprio più. Non che fosse cattivo, ma doveva fare il suo mestiere e questo me lo rendeva antipatico. Ed io a lui dovevo risultare ancora più detestabile per il solo fatto di essere tornato.
Le parole che disse quella sera cercando di confutare le idee di Paoletto non aumentarono la mia stima nei suoi confronti:
"Non devi pensare questo. Tu sei te stesso e ne sei orgoglioso. Ma gli altri e soprattutto Dio ti giudicano per le tue azioni, buone e cattive! Ed è a Dio che devi rendere conto!"
"Non ci credo!" gli rispose subito Paoletto, infervorandosi, mentre io con i miei pensieri tornavo al bambino che avevo lasciato e al ragazzo, anzi all'uomo, che ritrovavo. Capace di difendere le proprie idee, anche a costo di rendersi impopolare.
Trascorsi qualche minuto lontano, molto lontano con i miei pensieri e la discussione evidentemente era andata avanti senza di me, fino a dove non immaginavo neppure.
"E tu non puoi dire questo" sentii gridare "perché, se lo pensi, vuol dire che non credi in Dio!"
Era il prete e stava urlando. Questo mi fece tornare alla realtà, vidi Paoletto guardarsi sconsolato la punta delle scarpe, poi sollevò un sopracciglio, uno solo e mi guardò.
Sentii che Marco tentava una mediazione, poi qualche altro cercò di spiegare il pensiero di Paoletto e lui, serafico, ripetere che, a dire proprio tutta la verità, era da tanto che credeva solo nella propria ragione e nelle proprie percezioni, piuttosto che in qualcuno, fosse pure dio, che poteva giudicarle.
La riunione finì prima che potesse degenerare ulteriormente. Era tutto rimandato ad un altro momento, più o meno vicino.
Era la prima volta che l'ascoltavo esprimere le proprie idee e ne restai impressionato. Dovrei dire estasiato, oppure innamorato.
Quella sera tornammo a casa insieme. Avevamo ripreso a farlo con molta naturalezza. Se la prima sera ero fuggito per l'emozione, la seconda attesi che la riunione finisse. Ce ne andammo in giro per un po' assieme a tutti gli altri e poi bastò un'occhiata per decidere che era ora di ritirarci e che avremmo fatto la strada assieme.
Mi pareva di essere tornato in vita nel momento in cui l'avevo rivisto.
Prima c'erano state le tenebre e le mie erano state nere di pece.
Della sua vita, se c'erano state tenebre, non mi era ancora dato di saperlo, perché non ero pronto a domandarglielo, per paura che me ne chiedesse conto.
"Ma tu credi in dio?" gli chiesi.
"E tu?"
"Che c'entro? La domanda l'ho fatta prima io!"
"Non lo so" e tornò a guardarsi la punta delle scarpe "Dovrei, non è vero?"
"Beh... per stare negli scout. Credo sia indispensabile."
"Ma tu ci credi?" insistette.
"No, non più, ma..."
"E allora neanch'io!"
"Non devi farti condizionare da me..." cercai di dirgli, ma lui era scappato, perché nel frattempo eravamo arrivati davanti a casa sua.
Durante il viaggio in treno verso il Piemonte, un lungo viaggio notturno, non parlammo molto. I ricordi per noi erano sempre troppi.
"Sei contento di partire per un altro campeggio?" mi chiese.
Gli feci di si con la testa. Avevo un groppo alla gola per la felicità.
"Non ci speravo più" disse dopo un po' "Sai... la sera in cui ti ho rivisto è stata la più bella della mia vita."
"Anche per me" riuscii a dire. Un'altra parola e sarei scoppiato a piangere.
Sapevo che aveva tante domande e che non me le faceva per lo stesso motivo per cui non mi aveva mai cercato in quegli anni. Sapevo anche che quel buon motivo perdeva significato e valore ad ogni passo che facevamo uno verso l'altro e che un giorno, fra noi non ci sarebbe più stato lo schermo della discrezione e ci saremmo parlati. Lui a farmi domande ed io forse a dargli risposte.
Quella notte non accadde, perché era ancora troppo presto, perché lui era un ragazzo e quindi, sebbene emozionato dalla mia presenza, era anche molto interessato all'idea di partire per il suo ultimo campeggio da scout e l'unico da caposquadriglia.
Ne era particolarmente fiero:
"Quella delle Pantere è sempre stata la squadriglia migliore del reparto" mi confidò, come se fosse un segreto "Marco ne è stato caposquadriglia, lo sei stato tu ed ora tocca a me. E noi siamo speciali: non è vero?"
Perché speciali? Avrei voluto chiedergli. Gli sorrisi. L'amavo. Era speciale per me, più di chiunque altro al mondo.
Ma dovevo sublimare il mio sentimento: la disperazione, i tormenti, le angosce, e poi quella promessa a George, il mio amico francese. Eravamo rimasti in contatto. Mi era stato vicino, come è possibile esserlo per lettera, durante la malattia di mio padre. Non aveva mai smesso di chiedermi di Paoletto. Quando gli avevo raccontato di averlo rivisto e che sarei addirittura andato al campeggio con lui, ne era stato entusiasta. Ed aspettava mie notizie. Voleva che Paoletto gli scrivesse due righe, tanto per conoscerlo, per vedere e valutare la sua grafia. Una delle manie di George in quegli anni era la grafologia e quindi lui analizzava ogni mio scritto, interpretando i miei stati d'animo, che in quell'anno erano stati spesso burrascosi. Qualche volta era arrivato a prevederne l'evoluzione, spesso era così preciso nelle descrizioni che ero arrivato a credergli. Ovviamente, la lettera in cui gli parlavo del campeggio e l'informavo di aver rivisto Paoletto era stata analizzata più approfonditamente delle altre. Con risultati prevedibili di euforia per il presente e paura del futuro.
Ma era ancora tutto così vago. In alcuni momenti ero sempre e soltanto quel vecchio involucro in cui si rimestava la stessa drammatica angoscia. Il desiderio di annullarmi talvolta mi logorava. In altri ero puro spirito, delizia assoluta. Erano i momenti in cui c'era lui con me e potevo guardarlo.
Quando Paoletto s'addormentò, felice nel suo sonno di ragazzo, mi posò il capo sulla spalla e chiusi gli occhi anch'io. Cullato dal movimento del treno, piansi in silenzio, per me stesso. Solo qualche lacrima, tanto per non perdere l'abitudine.
Nei primi giorni lui, come tutti gli altri, fu impegnato a fabbricare tavoli, cucine, sgabelli. Tutto quello che avrebbe potuto servirci nelle due settimane sarebbe stato costruito usando paletti di legno e cordino, ma non i chiodi! Finii per aiutare anch'io, sebbene, non ne avessi molta voglia. L'ascia e la sega sono due attrezzi con cui si deve avere dimestichezza, altrimenti sono pericolosi. Avevo troppa paura per le mie dita, ma riuscii a non farmi male.
Nel pomeriggio del quarto giorno di campo, prima del tramonto, cominciò il torneo di uno sport praticato soltanto dagli scout, una specie di rugby.
Nella prima partita fu impegnata la sua squadriglia.
Ero ai bordi del campo, rannicchiato, a guardare affascinato quei ragazzi rincorrersi per conquistare il pallone e farlo arrivare oltre la linea di fondo. Quello che m'incantava era quanto vigore ancora avessero dopo la giornata infernale che avevano trascorso. Erano ragazzi ed io non ero molto più vecchio di loro, ma la mia stanchezza era diversa. Doveva passare ancora tempo, prima che potessi tornare a godere la leggerezza dei miei anni. Diciotto, di cui gli ultimi tre praticamente buttati nel cesso. Quello era l'abusato inizio delle mie tirate di autocommiserazione e rammarico.
Per consolarmi, e fu un espediente miracoloso, seguii i movimenti di Paoletto. La grazia con cui si muoveva mi fece subito scordare la stanchezza, di qualunque natura essa fosse.
Sapevo di essere io a renderlo ai miei occhi molto più bello di quanto non fosse davvero. Era un bel ragazzo, ma non più di altri: il mio amore lo trasformava in un dio.
Chiusi gli occhi e sognai di sfiorare il suo corpo agile e questo mi riportò subito ad una dimensione molto più terrena. Cominciai a sognare, a descrivere a me stesso quello che c'era sotto i pantaloncini bianchi, sporchi di terra, sotto la maglietta un poco strappata che gli copriva il torace ormai formato. Quei sogni erano proibiti. Quella specie di visioni era stata l'origine di molti guai.
Lo vidi allungarsi per raggiungere un avversario che correva davanti a lui. Capii, prima che accadesse, che si sarebbe fatto male.
Perse l'equilibrio e cadde. Fece per alzarsi, ma crollò a terra, tenendosi la coscia. Gli altri gli furono subito attorno. Arrivai anch'io correndo.
Quando gli fui vicino, mi guardò con occhi spaventati. Era chiaro che la gamba gli faceva molto male. Se la teneva con tutt'e due le mani ed era piegato su se stesso, come per contenere il dolore. Stava soffrendo molto. Gli accarezzai la testa, cercando di farlo calmare. Lentamente si lasciò la gamba e cercò di stenderla, stringendo i denti. Gli doleva la coscia. Forse era uno stiramento o, peggio, uno strappo. Gli passai dell'acqua fredda dove pareva sentire più dolore e questo parve dargli sollievo. L'aiutammo a spostarsi al bordo del campo.
Ci lasciarono soli.
"Forse hai uno stiramento! È una di quelle cose che fanno male, ma solo per un po'. Sta per passarti" gli dissi, sperando che fosse vero.
Cercai di massaggiargli la gamba, ma vidi che soffriva, allora lasciai perdere.
"Dobbiamo andare da un medico. Non vorrei farti qualcosa che poi potrebbe peggiorare la situazione."
Poco distante c'era un ristorante. Chiedemmo al proprietario di accompagnarci in paese.
Il dottore diagnosticò un brutto stiramento e prescrisse due o tre giorni di riposo assoluto, senza muovere neppure un passo. Poi una pomata da passare più volte al giorno e delle iniezioni.
"Se volete potrete venire a farle qua, anche fuori dell'orario di ambulatorio. Non preoccupatevi di disturbare."
"Io so fare le iniezioni" dissi.
"Studi medicina?"
"No, ho appena preso la maturità" guardai Paoletto e in quel momento presi la decisione di diventare medico "penso che mi iscriverò a medicina."
"E come mai hai imparato a fare le iniezioni? Hai fatto un corso da infermiere?"
"No, è stato per mio padre: era medico anche lui e me l'ha insegnato. Quando si è ammalato di cancro, in casa abbiamo avuto bisogno di qualcuno che sapesse fare le iniezioni. E lui ha voluto insegnarlo a me, perché non si fidava della mano di mia madre" lo guardai e poi aggiunsi, con una punta di cattiveria "Si è diagnosticato il male da solo."
Il dottore sorrise e mi dette una pacca affettuosa sulla spalla: in quel momento mi chiesi se fosse compatimento, oppure ammirazione. Ma lui era semplicemente a disagio, come tutte le persone alle quali mi capitava di raccontare come avevo perduto mio padre. Anch'io ero imbarazzato a raccontarlo, ma ero anche convinto che solo dicendolo a tutti mi sarei liberato da quell'incubo.
Comprammo le medicine e tornammo al campo, sempre approfittando della gentilezza del nostro autista improvvisato.
Si pose allora il problema dei movimenti di Paoletto e della sua sistemazione. Per me, invece, cominciò un sogno: sarei stato la sua balia per qualche giorno ed avrei avuto la scusa per non lasciarlo da solo neppure di notte. Forse anche di toccarlo mi suggerì il mio demone privato.
Marco fu subito d'accordo che mi spostassi a dormire nella tenda delle Pantere, almeno per quella notte, dato che Paoletto avrebbe potuto avere febbre e certamente bisogno di aiuto.
Lo sistemammo sulla sua brandina, accanto alla tenda, da lì avrebbe potuto tranquillamente chiamare aiuto ed anche dare ordini per preparare la cena, perché era pur sempre uno che aveva delle responsabilità e non intendeva sottrarsi.
Per quella sera il medico gli aveva già fatto l'iniezione e gli aveva passato la pomata, spiegandomi tutti i movimenti che avrei dovuto fare per non fargli male.
Mi allontanai anch'io, senza perderlo d'occhio. Mi chiamò quasi subito: doveva fare la pipì.
"Ho cercato di trattenermi" si giustificò "ma adesso non ce la faccio più. Non posso camminare. Vero?"
Il medico era stato perentorio: non doveva muovere neppure un passo per almeno quarantotto ore e noi non avevamo quell'aggeggio che consente di far pipì senza alzarsi da letto. Non avevo pensato di comprarlo in farmacia.
"Ti aiuto io, appoggiati."
Quando era stato l'ultima volta? Quanto avevo sofferto nel frattempo? Quante volte mi ero avvicinato alla morte e l'idea, la speranza che lui mi riabbracciasse, me ne aveva inconsciamente allontanato. Ed ora stava accadendo un'altra volta. Un contatto, toccarlo, sfiorarlo. Gli posai la mano sul fianco e l'aiutai a sollevarsi, mentre faceva forza sull'altra gamba.
"Mettimi il braccio sulle spalle" e a me parve di sognare, perché fu come se mi abbracciasse "Andiamo verso quell'albero. Ce la fai?"
Fece cenno di si. Saltellò reggendosi a me fino al limite della radura. Mi accorsi che esitava, poi mi guardò. Era quasi buio, perché, con tutto quello che era capitato, avevamo fatto tardi. Immaginai, più che vederlo, che fosse arrossito. Era imbarazzato dalla mia presenza.
"Vuoi che mi allontani?"
"No! Aspetta, ho paura di cadere!" mormorò, poi aggiunse, inaspettatamente "Non è perché mi vergogni... Non credo almeno. È che non lo so proprio. Non ho più lo stimolo!"
"Appoggiati all'albero, aspetta..." non sapevo che dire, ero emozionato anch'io.
Vidi che chiudeva gli occhi, come per concentrarsi.
"Quando devo fare qualcosa di difficile" disse con gli occhi ancora chiusi "penso a mia madre. È lei che mi aiuta" quella confidenza la conoscevo, me l'aveva già fatta in passato. Che me ne parlasse un'altra volta voleva dire che era rimasto qualcosa fra noi. Lo sperai.
"Quando cerco di immaginarla, però, non riesco a vederla, posso soltanto fantasticare su come doveva essere. Faccio come quelli che sono ciechi dalla nascita e sono costretti a figurarsi un mondo, le cose reali, inventarsi come sono i colori. Così è per mia madre. Neppure tu la ricordi, non l'hai mai vista."
Gli feci di no con la testa: quando era più piccolo, me lo chiedeva spesso, ma io non potevo proprio ricordarla. Non l'avevo mai conosciuta, ma mi venne da piangere, perché in quei mesi piangevo spesso e senza preoccuparmi troppo del perché lo facessi.
"Adesso devi soltanto pisciare" gli dissi risolutamente, scuotendomi "e non è una cosa difficile. Se ti è passato lo stimolo, non fa nulla. Torniamo indietro. Ci riproveremo più tardi" gli suggerii, anche per distrarlo. Dopo tutto, pensai, era un ragazzo che aveva visto il suo campeggio rovinato da un incidente. Era il suo campo da caposquadriglia e aveva certamente sognato per cinque anni quel momento. Invece era immobilizzato sulla brandina per almeno tre giorni e per pisciare doveva farsi accompagnare, da un altro, che era suo amico, ma sul quale poteva raccontare qualche storia.
"Non è quello!" disse con un tono triste che non gli conoscevo.
"E allora?" l'accarezzai sulle spalle.
"È che mi dispiace di darti fastidio... e che tu forse non vorresti neppure..."
"Cosa non vorrei?"
"Questa confidenza con me!"
"Non..."
"Non voglio che tu faccia delle cose che ti dispiacciono. Non devi!"
"Lo faccio perché ne hai bisogno" l'interruppi serio "E lo farei per chiunque, ma con te è diverso. La nostra amicizia era speciale. Te lo ricordi?"
Strinse gli occhi, guardò lontano, oltre gli alberi.
"Non è più come allora" disse, con una voce adulta, che forse usava per la prima volta "Mi racconterai di te, non è vero?" quello invece era il suo tono un po' infantile e petulante di quando desiderava che gli concedessi qualcosa. Lo riconobbi con un brivido. Non riuscivo a resistergli quando parlava così.
"Adesso piscia, ne discuteremo un'altra volta!" dissi risoluto.
E invece avrei voluto tanto raccontargli tutto là, mentre lui era su una gamba sola ed io lo reggevo, l'abbracciavo. Sussurrargli la verità e chiedere il suo perdono.
"Vabbè..." mi sorrise e mi parve anche un po' rasserenato "adesso ci provo. Ma tu... non guardarmi!"
"D'accordo!"
Si staccò da me, sempre reggendosi su una sola gamba. Armeggiò con i pantaloni della tuta, ma quasi perse l'equilibrio. Mi avvicinai subito per sorreggerlo e lui, senza più parlare, lo tirò fuori. Finalmente pisciò, mentre io chiudevo gli occhi. Mi vergognai dei miei pensieri e del mio corpo che incurante del mio imbarazzo aveva reagito come temevo. Tremavo all'idea che Paoletto indovinasse, mi leggesse in faccia la verità o mi guardasse semplicemente davanti. E feci lo stesso quello che lui mi aveva chiesto di non fare, socchiusi gli occhi e guardai, mi godetti quella visione senza neppure respirare, temendo che un mio sospiro disfacesse l'innocenza di quel momento. Erano solo pochi centimetri di pelle che spuntavano dalla sua mano, ma per me furono tutto quello che avevo fuggito con disperazione e che finalmente rivedevo.
La stessa scena, così vergognosamente eccitante, si ripeté prima di andare a dormire, poi la notte trascorse tranquilla. Si lamentò un poco, ma fece un buon sonno. Io, invece, quasi non chiusi occhio, per paura che mi chiamasse.
Alla sveglia, mentre tutti correvano fuori per fare ginnastica per riscaldarsi e cominciare la giornata, noi due restammo nella tenda. Gli altri andarono poi a lavarsi.
Quella mattina dovevo passargli con delicatezza la pomata sulla coscia e dovevo fargli la prima iniezione. Tremante, l'aiutai ad abbassarsi i calzoni della tuta e, mentre gli strofinavo la parte anteriore della gamba, cercai di scherzare.
"Tra un po' mi toccherà ripassare tutte le mie scarse nozioni su come si fanno le iniezioni. Tu sai, per caso, come si aspira la medicina? E l'ago da che parte va infilato?"
Cercavo di avere un tono allegro, ma parlavo a stento, con la gola secca. La mia voce dovette sembrargli divertita, perché mi sorrise, sapeva che scherzavo, ma fece lo stesso la faccia spaventata.
"Fine della prima parte! Voltati!"
Si mise a pancia sotto ed io gli massaggiai anche la parte posteriore della coscia. Lo toccavo con una specie di voluttà che però era resa seria dalla mia responsabilità di infermiere.
"L'iniezione la vuoi adesso, oppure dopo colazione?"
"Meglio a pancia piena" disse, ma notai che non scherzava più, la sua voce s'era fatta preoccupata.
"Puoi voltarti se vuoi, ho finito. Ti aiuto a rimetterti i pantaloni, poi usciamo e ti accompagno a lavarti!"
Non si mosse. Se ne stette con la faccia schiacciata contro il cuscino e con gli occhi chiusi. Io gli ero inginocchiato accanto. Non si voltò ed io l'accarezzai, sentendo nella mano un brivido che non era mio, come mi sarei aspettato, ma suo.
"Paoletto, vuoi dormire ancora?"
Non capivo perché facesse così: prima mi era sembrato abbastanza sveglio. Non rispose.
"Non ti senti bene?"
"Non posso voltarmi" disse con un filo di voce.
L'accarezzai ancora.
"Perché? Che hai?"
"Non è niente, ma tu non guardarmi. Per favore, chiudi gli occhi!"
Li chiusi e per convincerlo del mio impegno mi misi le mani sulla faccia. Lo sentii muoversi, si stava infilando velocemente nel sacco a pelo.
"Ora puoi riaprirli."
"Va tutto bene?"
"Si. È che mi sono... eccitato" spiegò e arrossì come non l'avevo mai visto fare.
"Le mie mani sono miracolose" dissi sorridendo, cercando disperatamente di sdrammatizzare quel momento "oppure la tua è solo un'espressione di adolescenziale esuberanza?"
"Tutt'e due!"
E non disse altro, forse grato che l'avessi presa a ridere.
Mi lasciò così a pensare che qualcosa che non doveva, poteva invece essere.
Dopo averlo conosciuto, quando la nostra amicizia era tanto importante per noi, ma prima che io la rendessi ciò che era diventata, sognavo spesso che lui fosse mio fratello, il mio fratellino. Anche lui aveva provato per me lo stesso sentimento. Il suo era sempre stato un affetto assolutamente puro ed innocente.
Ora che avevo la fortuna di poterlo accarezzare ancora, volevo solo mostrargli che quell'affetto che provavamo uno per l'altro era rimasto inalterato. Eravamo davvero amici, soltanto amici e nulla doveva essere cambiato. Avevo penato ed espiato con la mia sofferenza.
Quelle erano le mie intenzioni, ma uscii dalla tenda tentando di nascondere la mia erezione. In quel momento desiderai di morire, di castrarmi, fuggire.
Mi piaceva fare pensieri come quello, crogiolarmi nel dolore, nei dubbi della mia esistenza: era bello pensare di morire, accorgendosi, sapendo bene, che non avrei fatto nulla per morire davvero. Era uno degli aspetti positivi di aver toccato il fondo della disperazione e di esserne, in qualche modo, risalito. Desiderare ancora la morte, guardarsi intorno per scegliere a quale albero impiccarsi. Trovarne uno adatto e subito scoprire subito che non c'era tutta quella fretta, che accanto ne stava spuntando uno alto pochi centimetri e decidere di attendere che crescesse. Anche quel giorno il mondo mi sorrise proponendomi di rimandare l'esecuzione. Non era così urgente somministrami la pena capitale che mi ero dato. Marco mi chiamò e scordai di farlo. Sarei tornato subito da Paoletto.
Verso le dieci, dopo la pipì, fatta nello stesso, per me, temibile modo della sera prima, dopo la colazione, dopo che ebbe diretto per un po' il lavoro di costruzione del tavolo e della cucina da campo per la sua squadriglia, riuscendo anche a farsi male ad un dito con la sega, mi chiamò.
Eravamo d'accordo che l'avrebbe fatto quando si fosse sentito pronto ed ora, finalmente, gli pareva di esserlo.
"Fammi quell'iniezione. Ora o mai più!"
Disse con l'espressione di chi decide di sottoporsi ad un difficile intervento chirurgico. Poi mi sorrise, per incoraggiare me e anche se stesso.
Lo portai nella tenda e lui tornò a stendersi.
"Paura?"
"Per niente" mentì, poi mi fissò "mi sento morire. L'ultima volta che me ne ha fatta una, zio Giulio voleva legarmi al letto. Adesso invece non posso neanche piangere. Ma tu le sai fare davvero?" chiese spaventato.
"Lo so che hai paura, ma stai tranquillo! Le so fare davvero. Ma tu piangi se vuoi!"
"Mi dispiace per tuo padre" disse, io non gli risposi e lui parlò ancora "Lo sapevo, ma... io non potevo... Non sono venuto al funerale, né dopo a trovarti, perché non volevo che tu... Non sapevo se avresti voluto vedermi. Pensavo che ti sarebbe dispiaciuto."
Mi affaccendai con la siringa. Cercai inutilmente di rompere la fiala, ma non ci riuscii proprio, perché le mani mi tremavano. Se fosse venuto al quel funerale sarebbe stato un guaio: stavo già male, ma vederlo sarebbe stato davvero troppo.
"Non fa nulla. È passato" gli dissi. Sapevo di stare per piangere.
"Nonna Luigia non me ne ha mai parlato. L'argomento orfanelli è vietato in casa mia. Lo sai, no? E anche tu come argomento, sei ancora vietato!"
Riuscii a controllare le lacrime. Pensare a nonna Luigia mi aiutò, forse il peggio era passato.
"Beh... adesso sono orfano anch'io" dissi "Puoi aiutarmi, visto che sei esperto del genere."
"Come stai? Come... sei ora?"
"Ti faccio una confidenza" dissi, inginocchiandomi accanto a lui "credo che partecipare a questo campeggio, tornare con gli scout, mi faccia bene."
"Ed io posso fare qualcosa?" fece speranzoso.
Questo mi commosse di più, ma mi aiutò anche a scacciare la malinconia.
"Riabilitami con tua nonna."
"Ti odia!"
"Me l'immagino!"
"Sarà un po' difficile: l'hai fatta troppo grossa. Non le ho detto che al campo ci saresti stato pure tu: se l'avesse saputo non mi avrebbe fatto venire. Ma tenterò. E ci riusciremo, vedrai!"
L'avevo fatta davvero grossa, nonna Luigia aveva ragione.
"Adesso però stai zitto e fatti fare questa maledetta iniezione!"
Finalmente riuscii a spezzare la fiala. Mi ero calmato.
"Fatti un po' guardare. Dove devo colpire?" tentai di scherzare.
Paoletto si voltò ed io l'aiutai ad abbassarsi i pantaloni.
Lo scoprii soltanto quel po' che bastava a fargli l'iniezione, ma mi eccitai lo stesso. Non avrei voluto. Con quella reazione mi parve di insultare la fiducia che lui riponeva in me. S'era voltato ed aspettava che lo curassi, non che abusassi di lui.
Lo disinfettai lentamente, con la mano tremante e finalmente riuscii a fare quello che dovevo, lo feci bene e lui non sentì dolore. Ne avevo fatte tante a mio padre, anche quando i suoi muscoli si erano come asciugati e dovevo penare per infilare l'ago. Paoletto aveva i glutei sodi e sarebbe stato facile se tutto quello spettacolo non avesse fatto altro che distrarmi.
A malincuore l'aiutai a ricoprirsi e fra noi corse uno sguardo che non compresi. Aveva capito? Temetti di si e senza una parola me ne andai fuori dalla tenda, fingendo anche con me stesso che nulla fosse accaduto.
Che potevo dirgli, se mi avesse fatto qualche domanda? Rispondergli forse che mi sarebbe piaciuto affondare la faccia nel suo grembo ed affogare nella tenerezza che il suo corpo e i suoi modi mi ispiravano? Non potevo, allora cercai di scappare.
Dovevo fargli almeno altre cinque iniezioni e sarebbe stato sempre più difficile controllarmi.
Nel pomeriggio l'aiutai ancora a muoversi. Questa volta fu più difficile per tutt'e due.
"Devo andare a gabinetto... non è per la pipì" mi disse con la faccia sofferente "non ce la faccio più. Mi dispiace!"
"Se mi dici un'altra volta che ti dispiace, mi arrabbio sul serio! Sono stato chiaro?"
"OK! OK! OK!"
Saltellammo ancora, questa volta ci allontanammo di più. Dovevamo risolvere in fretta un problema: trovare un posto che gli consentisse di appoggiarsi con il bacino e che fosse anche un po' riparato. Ci accorgemmo di due pietre, quasi parallele, che fuoriuscivano dal terreno ed erano abbastanza alte per essere un sedile. L'aiutai a sedersi sulle pietre.
Avrei voluto assisterlo in qualche modo, ma temevo di essere invadente. Feci per allontanarmi.
Lui invece mi chiamò: "Resta con me, per favore! Vuoi?"
Tornai verso di lui e lo feci appoggiare a me, mentre si muoveva per liberarsi dei vestiti. Ancora una volta il mio corpo ebbe la spiacevole, vergognosa reazione di quando, quella mattina, gli l'avevo fatto l'iniezione. Mentre l'aiutavo in un momento che per lui doveva essere di grande imbarazzo, non riuscivo a distogliere il pensiero dalla sua nudità. E, per quanto mi sforzassi di serrare gli occhi, pensando a qualunque altra cosa, la mia mente disegnava con una precisione fastidiosa, ma eccitante, quello che non volevo contemplare direttamente e che mi era davanti.
Per non fare forza sulla gamba malata, appoggiando il piede per terra, Paoletto si reggeva a me. Appena ebbe finito, si risistemò i vestiti e cercò di alzarsi da solo. Questa volta riuscì a mantenere l'equilibrio, avendo imparato a reggersi da solo. Saltellò sul terreno sconnesso, ma rischiava di procurarsi una storta all'unico piede che per il momento poteva usare, così, con mia grande gioia, tornò ad abbracciarmi.
"Sei la migliore balia che abbia mai avuto."
"Sono severissimo. Stai attento. Per esempio: è arrivato il momento che tu ti lavi e ti cambi. Quando intendi farlo?"
"Ci ho pensato anch'io. Dici che puzzo?"
"Un po'! Beh... non molto."
Aveva la faccia infelice: "Ma come possiamo fare?"
"Adesso fa freddo e non è il caso. Ma domani, verso mezzogiorno, possiamo tentare di andare al ruscello. Diremo a Marco quello che dobbiamo fare, così non farà scendere nessuno a disturbarci. Che ne dici?"
Dopo un'altra notte tranquilla, due iniezioni che vissi con lo stesso stato d'animo della prima, tanti passi mossi con lui in lungo e in largo, per svolgere una serie infinita di incombenze cui non voleva rinunciare ed alle quali finii per sottopormi anch'io, scendemmo al ruscello che correva proprio dietro il campo. Era quasi mezzogiorno e l'aria si era intiepidita, fino a diventare calda. Scegliemmo un angolo riparato dal vento e da persone che potessero passare. Gli altri erano tutti molto impegnati e difficilmente sarebbe arrivato qualcuno.
Paoletto si sedette sulla riva, appoggiandosi ad una pietra che affiorava. Si tolse le scarpe, i calzettoni e poi si sfilò i calzoni. Rimase in slip e canottiera, si lavò i piedi.
Ero di fronte a lui e lo guardavo. La naturalezza con cui si stava spogliando davanti a me, non era esibizione.
In quel momento capii che ammiravo tutto in lui. Cercai, anche per distrarmi, di trovare qualcosa che non mi piacesse, nel suo aspetto fisico o nei suoi atteggiamenti, nelle sue azioni. Possibile, mi chiesi, che non ci fosse nulla che trovavo insopportabile? Oppure, almeno, un poco, ma proprio un poco discutibile? Sapevo che non avrei mai trovato nulla, perché lo amavo. L'avevo ritrovato cresciuto e subito mi ero accorto di desiderarlo. Il suo corpo mi aveva attratto. Ma in quel momento, mentre si spogliava davanti a me, sulla riva di quel ruscello, in me sentivo manifestarsi un sentimento, mai provato prima, non certo quando mi drogavo, né ad Amsterdam, perché non ne avevo avuto il tempo, né quando ero tornato alla mia vita normale, perché mi ero troppo vergognato di essere ciò che ero, per pensare ad innamorarmi. E con Marco non era accaduto che uno di noi pensasse all'altro come al possibile oggetto di un sentimento: lui ne sarebbe stato troppo spaventato ed io non l'avrei compreso, perché ero ancora troppo piccolo.
Amavo Paoletto ed era un amore complicato, che stentavo a comprendere. Desideravo accarezzarlo, sfiorare la sua pelle, possederlo, lasciarmi possedere da lui, ma anche sentirmi amare, trascorrere assieme ogni momento della nostra vita, progettare insieme il nostro futuro. In quei minuti trascorsi a contemplare il mio innamorato seduto, quasi nudo, sulla riva di un ruscello alpino, feci mille strani, irrealizzabili progetti su noi due.
Era la prima volta che accadeva. Accanto a lui il tempo si dilatava, l'orizzonte si faceva più distante e la mia fine si allontanava.
"Mi aiuti?" gli sentii dire un po' ad alta voce. Me lo aveva già chiesto, senza che lo sentissi, tanto lontano ero andato con i pensieri "Mi stavi fissando e non parlavi più."
"Scusa... pensavo ad altro" riuscii a dire, avvicinandomi perché mi mettesse, come al solito il braccio sulle spalle.
Si sollevò e fece qualche passo verso il centro del ruscello, ma perse l'equilibrio e cademmo insieme in acqua. Quel bagno gelato mi svegliò del tutto. Scoppiammo a ridere. Paoletto cominciò a farmi il solletico, senza neppure tentare di uscire dall'acqua ed io, che ero completamente vestito, mi rassegnai a bagnarmi tutto per cercare di farlo star fermo e restituirgli qualche colpo. Il movimento, la situazione mi avevano fatto eccitare: Paoletto era quasi nudo ed io, almeno per un po', potevo toccarlo dove volevo. Lui non ci badava proprio, pur di continuare a solleticarmi, mentre io cercavo di immobilizzarlo. Ci fermammo solo quando fummo esausti, anche se non smettemmo di ridere e di guardarci. Eravamo un bello spettacolo, completamente bagnati, io che grondavo acqua dai vestiti.
"Quanto tempo era che non ti facevo il solletico, Zucchina?"
"Tre anni, Giuggiola."
Ci eravamo chiamati con i nostri soprannomi, quasi segreti.
Io ero Zucchina a causa di una orribile maglietta verde chiaro che una volta mia madre mi aveva imposto di indossare. Paoletto l'aveva vista e se ne era uscito con quell'espressione. Lui, invece, era Giuggiola, la mia giuggiola. Ed io lo chiamavo spesso a quel modo, perché la cosa lo faceva arrabbiare. Quando volevo prenderlo in giro, oppure avevo voglia di un po' di movimento, bastava che muovessi le labbra accennando a quella parola e lui mi saltava addosso. Usavamo quei soprannomi solo se eravamo soli, perché erano un segreto fra noi due, un segreto che ci piaceva mantenere.
"Ne hai sentito la mancanza?"
"Più di quanto immagini!" gli risposi serio e il mio cuore fece un balzo.
"Non quanto l'ho sentita io, stronzo!" e mi dette una spinta che mi fece finire un'altra volta in acqua. Poi mi guardò con aria un po' truce: "Pensi ancora che debba lavarmi?"
"Certo! E con il sapone, se non ti dispiace" gli risposi, mentre cercavo di tirarmi su, uscendo dall'acqua.
"Va bene!" e si diede da fare.
Era tutto intento a togliersi l'alone di nero che aveva sotto le unghie dei piedi, quando disse:
"Mi prometti che non sparirai un'altra volta?"
"Ti piaccio come babysitter o cosa?" tentai di scherzare.
"Niente... solo, credevo tu fossi mio amico e invece te ne sei andato. Credevo che fossi davvero mio amico. Ora vorrei sapere se posso fidarmi di te. Promettimi che non sparirai ancora."
Sapevo che era contento di avermi ritrovato e questo mi aveva reso felice, ma ascoltarlo mi riempì di rammarico: se avessi avuto il coraggio di crescere con lui negli ultimi tre anni, avrei scansato almeno una parte delle brutte esperienze che avevo fatto. E forse anche quelle inevitabili sarebbero state meno dure. Ero conscio di tutto questo e compresi anche che quel ragazzo era molto più maturo e consapevole di quanto non lo fossi io alla sua età. Lui non si sarebbe mai drogato e, soprattutto, non sarebbe mai fuggito, come avevo fatto io, davanti al mio incubo. Se avessimo invertiti i ruoli, lui non sarebbe scappato.
"Che razza di persona sei?" ripeté.
Si aspettava che promettessi di non andarmene un'altra volta. Forse non aveva ancora capito perché ero fuggito. Nessuno ne era davvero a conoscenza, soltanto Marco l'aveva intuito. Riprendere i rapporti con Paoletto, però, mi imponeva di raccontargli la verità. Dovevo farlo e l'avrei fatto, ma non subito: se gliel'avessi detto, forse mi avrebbe allontanato da sé. Sapere che ero omosessuale, l'avrebbe fatto soffrire. Forse non m'avrebbe scacciato, ma tenuto a distanza. Io, invece, desideravo intensamente vivere quei giorni. La pace e la felicità che mi stava dando erano un cibo che non avevo più assaggiato e che perduto lui non avrei mai più trovato.
Gliel'avrei detto alla fine del campeggio, ma non in quel momento. Me ne mancava il coraggio.
"Se io m'impegnassi a non scappare, tu mi faresti una promessa?" chiesi.
"Si."
"Se un giorno, una volta, io dovessi dire o fare qualcosa che ti desse fastidio, che ti mettesse a disagio, qualunque cosa, anche piccola. Se questo dovesse accadere, devi promettermi... io voglio che tu mi chieda di allontanarmi da te!"
"Credi davvero che possa succedere qualcosa del genere?" era sorpreso.
"È possibile... tu non sai niente di come sono diventato. Allora, sei disposto a prometterlo? In fin dei conti, tutto dipenderà sempre da te!"
"Accetto. Promesso!"
"E allora anch'io ti prometto di non scappare più."
Mi tese le mani ed io l'aiutai ad alzarsi, ma lui sollevandosi mi afferrò. Mi bloccò in una stretta che era anche un abbraccio e, per come era forte, mi impediva di respirare.
"E tu sei mio prigioniero!"
Era vero in quel momento, in quei giorni, ma io sperai che fosse per sempre.
Chissà se si accorse di come batteva il mio cuore. Ero diventato veramente il suo prigioniero, ma non proprio come l'intendeva lui. Mi ero messo nelle sue mani. Lui forse stava facendo una specie di gioco con il suo amico ritrovato. Ci si può anche giurare di restare insieme per sempre e la nostra promessa poteva essere come un patto eterno di amicizia, se io non fossi stato una specie di figliol prodigo, tornato indietro dall'inferno, uno senza tante speranze.
Accolsi la sua promessa nel mio cuore e gli feci la mia, perché lui l'avesse in pegno.
Quello stesso pomeriggio venne a trovarci il medico. Visitò Paoletto e lo trovò molto migliorato, tanto da consentirgli di muovere qualche passo. Questo rese il mio fanciullo quasi indipendente. Non avrei più dovuto accompagnarlo ovunque. La cosa mi rattristò un poco, ma il sollievo di vederlo guarire spazzò la malinconia. Tornai anche a dormire nella tenda dei capi, lasciando la squadriglia delle Pantere alla sua vita poco silenziosa.
Il taglio di quella specie di cordone ombelicale che ci aveva uniti per tre giorni, mi procurò incubi tremendi quella prima notte, ma diede anche spazio a qualche altro pensiero, non meno inquietante.
Che ne sarebbe stato di me dopo il campeggio? Prima di rivedere Paoletto, la mia idea era di scegliere l'università di una città lontana, forse a Vienna, dove andare a vivere, se mi riusciva, un'altra vita. Questa volta cercando di non drogarmi, visto che l'avevo giurato a mio padre.
Ma ora tutto era cambiato. Sapevo di amare Paoletto, ma non immaginavo che lui m'accogliesse come aveva fatto. Invece era come se avesse aperto le braccia per mostrare quanto ancora mi amasse, nonostante tutto.
Avergli promesso di non abbandonarlo, mi poneva un dilemma angoscioso. Non potevo più lasciare la città e dovevo continuare là i miei studi, ma restando, non sarei mai più uscito dalla noia che stava uccidendomi, perché molto probabilmente lui non avrebbe potuto darmi quello che cercavo, né avrebbe compreso in tempo di dovermi liberare dal mio impegno. Sarei affogato nel casto abbraccio della sua amicizia che forse non sarebbe stata sufficiente a salvarmi: questo fu l'incubo di quella notte orribile.
Nella mia vita avevo fatto un'altra promessa, altrettanto impegnativa, a mio padre. Aveva voluto che continuassi a studiare nonostante la sua malattia. Per fare riposare mia madre, per costringerla a farlo, trascorrevo le notti accanto a lui, con l'impegno di dormire anch'io, perché al mattino avrei dovuto comunque andare a scuola. Ma spesso non riusciva a non lamentarsi e mi svegliava. Una di quelle volte, mi prese la mano. Pensavo avesse bisogno di un'iniezione di calmante. Gli feci cenno che avevo capito e andai a preparare la siringa, quando tornai mi riprese la mano e sentii una stretta potente, inaspettata, al mio polso.
"Devi promettermi che continuerai a studiare, anche dopo che io non ci sarò più."
Il suo era un mormorio, un rantolo, perché il tumore gli aveva devastato la gola, ma io ero l'unico, con mia madre, a comprendere quella specie di borbottio e capii benissimo le sue parole.
"Vai all'università: ti avrei seguito, se avessi potuto. L'avrei fatto meglio di quanto non abbia fatto prima. Non voglio condizionare la tua scelta, decidi da solo quello che studierai, fatti consigliare, ma vai all'università. E mai, in nessun momento, dovrai farti schermo dei tuoi problemi per sottrarti allo studio e anche alla tua vita. Hai capito? Promettimelo!"
La sua stessa morte, che, come medico, aveva previsto con precisione, non doveva farmi perdere più di qualche giorno di scuola. Ed io per tre mesi, dopo aver assistito alla sua agonia notturna, perché le ore della notte erano le peggiori, ogni mattina andai a scuola, lasciando mia madre ad accudirlo. Il giorno della sua morte e quello dei funerali furono le uniche giornate che persi a causa sua. Mi aveva tirato fuori dalla droga, dandomi un motivo per vivere: la sua malattia, la sua morte. Era stato giocare la sua vita contro la mia.
Nei giorni precedenti la morte mi ero chiesto spesso se avrei continuato a studiare con lo stesso impegno, oppure, morto lui, non dovendo dare più conto della mia promessa, avrei lasciato andare tutto in malora, me compreso. Lui morì in marzo ed io continuai a studiare con disperazione, perché leggere i libri, cercare di capire, mi distoglieva dai pensieri peggiori, quelli della sofferenza di mio padre e di mia madre e soprattutto mi impedivano di pensare alla mia solitudine.
Una volta terminata la costruzione delle attrezzature del campeggio, in genere al sesto giorno di campo, si faceva un'escursione. E quella prima escursione doveva essere molto stancante. Capitava sempre di dover raggiungere luoghi inaccessibili, posti al termine di impervie salite: la vera tradizione era quella.
Paoletto, sebbene la sua gamba fosse migliorata, non poteva sottoporsi a quello sforzo, perciò doveva restare al campo e Marco mi propose di fargli compagnia. Saremmo stati soli, per tutta la giornata.
Forse Marco sapeva qualcosa, non perché gliene avessi parlato, ma per averlo immaginato, di quanto era accaduto quel giorno sulla montagna, tanti anni prima. Per tutta la sera non feci che chiedermi se la sua richiesta di far compagnia a Paoletto fosse o meno dettata da quella consapevolezza, per darci insomma occasione di spiegarci una volta per tutte. Finii per convincermi della sua buona fede, anche se un dubbio, che ho tuttora, rimase a stuzzicare la mia curiosità. Che Marco, avendo capito di me ogni cosa e forse avendola capita di Paoletto, volesse in qualche modo aiutarci, spingendomi un'altra volta tra le braccia di Paoletto.
Quei dubbi non mi aiutarono quando ce ne andammo nelle tende a dormire. Nel sonno erano i sogni a preoccuparmi, perché dal momento in cui ero tornato vicino a Paoletto, avevo una specie di allucinazione di ciò che avrebbe significato per me toccarlo, sfiorare il suo corpo non più acerbo, ma non ancora maturo.
Una parte dell'incubo era che lui potesse respingermi, ma ciò che mi terrorizzava davvero era che non lo facesse, perché, leggendomi nel pensiero, accettasse le mie fantasie. E solo per non deludermi.
Ero consapevole di essere giunto alla fine della mia corsa. Capivo che la mia vita stava per subire un mutamento, forse una soluzione, ma, nel mio pessimismo, ero certo che in un caso o nell'altro mi avrebbe portato alla rovina. Un rifiuto sarebbe stato ormai intollerabile. Continuare a vivere senza di lui, rinunciando a lui, mi era impossibile, lo era sempre stato. Lo sapevo, l'avevo capito rivedendolo, l'avevo negato a me stesso accettando di tornare nel reparto, perché ero ben conscio di chi vi avrei trovato quella sera. Il piano di Marco, se un piano aveva avuto, non era neppure tanto ben congegnato, faceva solo affidamento sulla mia vulnerabilità e quindi sulla complicità che non gli avrei negato. Ed ora ero in un labirinto, una trappola senza possibilità: anche vivere con Paoletto, sapendo di spingerlo all'omosessualità, sarebbe stato ammettere d'aver sofferto inutilmente, d'aver fallito. Sarei arrivato a pensare che mio padre fosse morto per niente. Non era molto razionale, perché il tumore che l'aveva colpito non era un castigo. E poi c'era mia madre che di tutto questo avrebbe sofferto ancora e per sempre.
Di notte i pensieri divengono incubi, perché c'è il buio. In un bosco il silenzio è totale e i rumori, se non c'è vento, sono inspiegabili. Quella notte tornai ad aver paura, quello stesso terribile senso di repulsione verso me stesso che avevo provato tre anni prima. Tornai a vedere me stesso come la vera rovina di Paoletto e della mia famiglia. Se non mi fossi trovato in una tenda al centro di un bosco, lontano da tutto, accanto a persone amiche che avrei spaventato con i miei movimenti, forse mi sarei alzato per cercare una cosa, qualunque cosa, che mi desse pace. Se non mi mossi, fu perché Marco che occupava il primo posto davanti all'uscita della tenda, muovendosi l'aveva inconsapevolmente bloccata ed uscendo l'avrei per forza svegliato. Quel ragazzo vegliava su di me anche dormendo. Fu un pensiero, una specie di ossimoro della mia ragione che mi esilarò, riconducendomi alla realtà.
Ma se anche fossi uscito, sarei davvero scappato?
Il mio equilibrio era ancora fragile, molto più delicato di quanto volessi ammettere. Un anno e mezzo lontano dalla droga, quei mesi di intervallo non erano nulla davanti al fallimento della mia vita.
Eppure mi addormentai, destandomi quando Marco si stava già alzando per dare la sveglia. Non ero scappato, ma avevo la bocca amara, come se avessi fumato per tutta la notte. Qualche volta l'avevo fatto ed era stato orribile dover tornare al mondo ed accorgersi di essere ancora vivi. Quella mattina, invece, fui felice di esserlo, perché la prima persona che vidi uscendo dalla tenda fu Paoletto che, non potendo ancora correre, mi saltellò incontro per salutarmi. I suoi movimenti erano ancora molto cauti, ma almeno poteva camminare.
C'era lui con me, come potevo pensare a morire, a drogarmi ancora?
Attesi con impazienza che restassimo soli e lui fu tutto per me.
Quando gli altri finalmente se ne andarono, sorse il problema di come occupare il nostro tempo. Propose di raccogliere un po' di legna per i fuochi della sera. Appena ne avemmo messa insieme abbastanza, gli venne un'altra idea:
"Che ne dici se esplorassimo il ruscello? Potremmo anche arrivare alla cascata..."
"Per me va bene, ma tu te la senti?"
Risalimmo lentamente il ruscello che scorreva vicino al campo ed arrivammo, dopo una mezz'ora di cammino, fino ad un minuscolo lago che si era formato in un avvallamento del terreno. L'acqua non era stagnante, c'era una piccola cascata che saltava da uno sperone di roccia. Non erano le cascate del lago Vittoria, ma muovevano l'aria in modo delizioso, generando anche un gradevole rumore.
Avevo lasciato al campo tutti le mie preoccupazioni. Inconsciamente avevo deciso di vivere quella giornata incurante di qualunque assillo o turbamento i miei veri pensieri potessero provocarmi. Questa scelta fu forse il primo segno di una nuova maturità che affiorava nella mia vita, non potendosi considerare tale il mio abbandono della droga ed il comportamento tenuto prima e dopo la morte di mio padre. La spiegazione di quei comportamenti era molto pratica, sicuramente rispettabile, ma per niente eroica: una forte reazione a quella morte annunciata, il bisogno di smetterla con tante scomodità della vita. Rivestire di eroismo tutto il tempo trascorso in ritiro monacale era un esercizio cui mi dedicavo spesso. Qualche rara volta, invece, riuscivo a vederlo nella sua giusta luce: la mia vita, come per tutti gli uomini, era fatta di stagioni, tutte poco nobili, né memorabili. La stagione della mia autodistruzione si era conclusa con il fallimento. Non ero morto al mio primo buco, né per la violenza che mi ero lasciato infliggere. Il dolore, l'umiliazione che avevo subito, l'eroina che mi ero fatto iniettare, non avevano avuto l'effetto sperato. La rivelazione della malattia di papà era stata però un ottimo, tempestivo, drammatico motivo per chiudere quella deludente stagione e aprirne una nuova, di transito.
Al campeggio, tornando accanto a Paoletto, ne ero certo, se n'era aperta un'altra, una maturazione finalmente raggiunta che mi avrebbe forse consentito di distinguere il bene e il male, purché scegliessi non solo per me, ma anche per lui che, come tante altre volte, era nelle mie mani.
L'idea di fare il bagno venne a tutt'e due e non esitammo neppure per un momento a spogliarci e a correre verso la riva.
Entrai in acqua per primo, sollevandone una gran quantità. Naturalmente era gelida, rispetto al tepore che c'era nell'aria.
Quando lui s'avvicinò alla riva, mi ero già assuefatto alla temperatura fredda. Cominciai a schizzargli acqua addosso, facendolo allontanare tremante.
Ci eravamo spogliati insieme e lui era stato un po' più lento di me, dovendo fare i conti con la sua gamba, ancora indolenzita. Quando ero rimasto solo con gli slip, non li avevo tolti ed ero corso verso l'acqua. L'idea che Paoletto si stesse spogliando accanto a me mi aveva fatto eccitare ed era stato il tentativo di nascondere la mia erezione a spingermi tanto velocemente in acqua, facendomi superare l'impatto con il liquido gelido. Solitamente, infatti, le mie entrate in acqua, ai tempi in cui avevo ancora voglia di scherzare, erano oggetto di scherno: ci mettevo molto tempo, minuti interi, spesso desistendo a causa della temperatura giudicata sempre troppo fredda. Quella fu l'unica volta che io ricordi, in cui, con tre salti, mi buttai in acqua. E quella fu certamente l'acqua più fredda che abbia mai bagnato la mia pelle.
Fermo sul bordo dello stagno, Paoletto valutò prudentemente la temperatura, infilando la punta del piede nell'acqua. Fu allora che presi a spruzzarlo.
"Nooo!" urlò, con un balzo, cercando di allontanarsi, mentre io allungavo la gittata degli schizzi. "È fredda! Fammi prima entrare in acqua. Non è leale. Io non ti ho mai spruzzato."
Era vero: lui era l'unico che avesse resistito alla tentazione di buttarmi l'acqua addosso, durante i miei estenuanti avvicinamenti. Lo faceva perché mi amava, pensai.
"Dai, buttati" feci in tono condiscendente, ma non appena si fu riavvicinato, ripresi a schizzarlo.
Questa slealtà gli diede la spinta giusta per fargli affrontare fieramente l'acqua in cui io sguazzavo già da un po'. Naturalmente venne subito verso di me, cercando di mettermi sotto per vendicarsi del mio tradimento.
Lottammo, mandando giù parecchie sorsate d'acqua, afferrandoci dove capitava, scivolando sul fondo viscido dello stagno. Dopo un po' eravamo esausti, più che per la fatica, per il troppo ridere. Solo allora mi resi conto che, nonostante l'acqua fredda, ero ancora eccitato. Alzai gli occhi fino ad incontrare i suoi, poi lo guardai davanti e mi accorsi che anche lui era eccitato.
Notammo insieme la stessa cosa, perché arrossimmo e nello stesso istante ci voltammo nuotando in direzioni opposte, quasi avessimo paura anche di rivolgerci lo sguardo. Ci allontanammo fino a raggiungere ciascuno la sponda opposta dello stagno. Eravamo sempre a pochi metri di distanza, ma abbastanza lontani per non doverci guardare.
Sguazzammo ancora un po', senza più avvicinarci, mentre i nostri uccelli per fortuna si erano acquietati per lo spavento provato ed erano tornati normali.
Uscimmo dall'acqua tremanti, ma ci scambiammo la stessa occhiata attenta e Paoletto mi guardò esattamente come lo guardai io.
Mi stesi a pancia sotto sull'erba morbida che cresceva sulla riva. Avevamo il fiato corto, ma non era solo per la fatica, era l'emozione. Lui fece come me.
Non riuscivo a pensare a nulla che potesse trarmi d'impaccio. Ero troppo bagnato per potermi rivestire. Né potevo in qualche modo coprire, nascondere l'imbarazzo che stava già tornando ad assalirmi. Mi raccolsi su me stesso e strinsi le ginocchia con le braccia. Assunsi la posa del quadro di Flandrin, che mi aveva tanto colpito da ragazzo. Quello era il momento in cui potevo pentirmi per essermi messo in una posizione così difficile. Non osavo guardare Paoletto, per paura, per terrore che quella situazione, tanto precaria, potesse precipitare ed il danno, sapevo, temevo, sarebbe stato irreparabile.
Fu lui a soccorrere entrambi, voltandosi dall'altra parte, mentre cercava di controllare il suo respiro.
"Sarebbe bello se riuscissimo a dormire un poco" disse con calma, mentre guardava non so cosa in mezzo agli alberi "Ne hai voglia? Solo qualche minuto, finché non ci saremo asciugati. Che ne dici?"
"Si, va bene!" risposi, tirando un sospiro di sollievo.
Mi stesi, dandogli anch'io le spalle. M'imposi di dormire, di assopirmi. Cercai di scacciare dalla mente l'idea del corpo quasi nudo accanto a me, ma più mi ostinavo in questi sforzi, più il pensiero tornava. Naturalmente non dormii, riuscii solo a restare immobile, a non voltarmi e quella mi parve una prova sovrumana.
Lo sentivo muoversi ogni tanto, ma restai fermo. Quando finalmente avvertii il suo respiro farsi regolare e capii che s'era assopito, mi alzai piano e, sempre senza guardarlo, allungai la mano per prendere i pantaloni. Me li infilai in fretta sugli slip ancora bagnati e sul mio uccello che era ancora duro come una pietra. Tornai sulla sponda del laghetto e lanciai pietre per almeno un quarto d'ora, imponendomi di non pensare a nulla che non fosse il rimbalzare di quei ciottoli piatti sulla superficie dell'acqua. Quella specie di autocensura fu efficace e durò finché non sentii la mano di Paoletto sfiorarmi la spalla.
"Capo, Piccola Pantera Zoppa avere grande fame!"
Si era rivestito e mi guardava sorridendomi sereno. Anche questa volta era passata. Il mio segreto e il mio amore, ancora più segreto, erano salvi. Avrei potuto continuare tranquillamente a piangere in silenzio per un altro po' di tempo. Era dunque questo il cambiamento che attendevo? La nuova stagione della mia vita? Si sarebbe tutto ridotto, attenuato ad una silenziosa, tollerabile sofferenza.
Mangiammo i panini e la frutta che avevamo portato con noi. Paoletto era affamato e quel cibo riuscì a mala pena a calmare il suo appetito. Io finsi di esserlo, forse lo ero davvero, ma il pensiero che la mia vita si volgesse in un altro lungo calvario, questa volta fatto di attese e di silenziose sofferenze, mi tolse ogni entusiasmo.
In quei giorni gli ero sempre stato vicino, ma non eravamo mai stati completamente soli e non per tutto quel tempo. E, se pure ci eravamo trovati spesso in una intimità molto particolare, quella situazione non si era mai protratta abbastanza perché potessimo parlarci seriamente. Quello che stava per chiedermi era sospeso tra noi fin da quando mi aveva rivisto, un paio di mesi prima. Avevo paura delle domande che doveva rivolgermi, perché non volevo mentirgli come avevo sempre fatto con tutti.
Avrei voluto dire, per una volta, la verità, ma già sapevo che non l'avrei fatto, perché non ne avevo ancora il coraggio. Avevo tanta paura di perderlo e se fosse accaduto, sarebbe stata una condanna senza appello.
Eravamo sdraiati sull'erba, stesi uno accanto all'altro, a guardare il cielo nascosto dalle cime degli alberi. E se prima potevamo essere un po' insonnoliti dal sole del primo pomeriggio, ora ero più che sveglio ed anche lui lo era. C'era silenzio fra noi, poi lui parlò.
"Perché sei sparito?" chiese "Perché non hai voluto più vedermi?"
Tre anni prima era bastato che mi allontanassi, per non dovergli spiegare alcunché. Se mi aveva cercato, era troppo piccolo per potermi trovare dove mi ero nascosto. Poi col tempo doveva essersi convinto a lasciarmi perdere. Ora non era più un bambino di dodici anni, davanti a me c'era un uomo, molto consapevole di sé. Ed io non sapevo che dirgli.
"Anche quella sera sei scappato. Non è vero?"
Gli feci di si con la testa. Capii subito di quale sera parlasse. Era quella sera, prima di quella notte, prima di quel mattino.
"Mi hai visto e sei fuggito. Non mi hai neppure guardato: non hai visto che ero cresciuto. Avevo già un po' di barba, sai? Ma ero soltanto un ragazzino. Ero un rompiscatole e tu non volevi perdere tempo con me. Avrei potuto aiutarti."
Riuscii finalmente a parlare: "C'erano delle cose che non volevo tu vedessi. Ma è vero quello che dici: quando mi accorsi di te, scappai. Mi dispiace."
"Ti dispiace? Tutto qua? Ti ho rincorso, ti ho gridato dietro. Sono caduto!"
"Non ero venuto a cercare te... proprio te. Avevo paura di vederti. Ero là per un'altra cosa, ma poi ho cambiato idea..."
"Davvero e perché? Perché non mi parlasti? Che cosa ci eri venuto a fare davanti a casa mia?"
"Non volevo incontrare te e quando mi spuntasti davanti, mi mancò il coraggio di fare qualunque altra cosa. Ma soprattutto non volevo parlarti. Io... volevo solo rivedere casa tua!"
"Non capisco!"
"Se te lo spiegassi, non mi capiresti lo stesso. Non me lo chiedere, ti prego."
Guardò lontano. Vedevo che era arrabbiato, riconoscevo l'avvicinarsi di una delle sue sfuriate.
"Va bene" disse invece di urlarmi dietro, come certamente stava per fare. Mi concesse un'altra volta la tregua ed io l'amai per quanto era buono e tollerante.
Se ne stette zitto per un po' a pensare, poi parlò ancora:
"È passato ormai! Non ti preoccupare. È finita!"
Cercava di consolarmi. Sentirlo mi fece quasi piangere di commozione.
"Lo sai che ho pensato spesso a te in questi anni?" disse dopo un poco "E ogni volta mi assaliva il terrore che potesse accadere a me di sparire, d'abbandonare gli scout e tutti gli amici? Come è stato per te..."
"Non ti accadrà! Non poteva accadere a te."
"Che ne sai? Come puoi dirlo?"
Aveva gli occhi lucidi, forse era commosso. Si guardò intorno, poi fissò il laghetto: al centro baluginava un riflesso del sole. Si concentrò su quella luce, mentre io lo contemplavo.
Era bello. La pelle era dorata, il profilo regolare, i capelli ancora umidi, schiariti dal sole. Quel riflesso che gli sfiorava la spalla, la guancia, fino a fargli brillare gli occhi. O era la mia immaginazione a fargli emanare quella luce?
"Lo sai che ho pianto spesso per te? Quando sei sparito e anche dopo. Per qualche giorno non ho neppure mangiato. Nonna Luigia non sapeva che fare e zio Giulio ha chiamato un altro medico."
"E tu che dicevi? Davvero non parlavi?" pensai a quanto doveva essersi preoccupata quella donna straordinaria. E anche Giulio che gli voleva bene. E ne voleva anche a me.
"Dissi soltanto che avevo perduto la cosa più importante della mia vita. Dissi queste precise parole `la cosa più importante della mia vita'" le ripeté lentamente, fissandomi.
Era di me che parlava.
"E non riuscirono a strapparmi altro" disse ancora "Avevo dodici anni e nessuno mi credeva capace di assumere una tale atteggiamento, di avere idee così precise. Zio Giulio cercò di prendermi in giro, ma nonna Luigia pareva aver capito e mi fece molte volte domande su di te, ma io non dissi nulla neppure a lei. Stetti due, tre giorni senza mangiare, poi la fame tornò e arrivai a dimenticarmi anche di te. Tu eri il mio amico speciale."
Non avevo mai fantasticato su un momento come questo, né avevo pensato che parlarne potesse farmi tanto male. Immaginare la sua sofferenza, equivalse a viverla, ma fui vile ancora una volta e tornai a mentirgli.
"Me ne andai, perché tutto quello che facevamo mi sembrava inutile, futile. Non mi divertivo più. E non credevo più in dio: come facevo a rimanere negli scout?"
"Non è vero!" lo disse in modo sconsolato.
Temevo ancora che si arrabbiasse, avrei preferito che lo facesse, ma ormai non credeva a quello che gli raccontavo, sapeva che non era vero.
"C'è un altro motivo per cui me ne sono andato" gli dissi allora d'impulso, prima di potermene pentire "ma di questo non ho voglia di parlare" ancora la mia paura.
Non ora, amore mio. Non posso. Curiosamente pensai a George in quel momento, a come avrebbe disapprovato il mio comportamento.
"Era qualcosa che c'entrava con me" insisté.
"No!" mentii.
"Non è vero!" ancora quella sensazione di impotenza e di sconfitta nella sua voce.
"Non voglio parlarne!" gridai.
Ero disperato. Come trarmi d'impaccio, se avesse insistito? Gli stavo chiedendo davvero troppo. D'aver fiducia in me e senza fornirgli spiegazioni. Era troppo.
"E allora perché sei tornato?"
"Perché è morto mio padre, perché non mi drogo più, perché avevo bisogno di stare con persone amiche, perché la mia vita era diventata troppo triste. E, comunque, non penso di restare..."
"Mi hai promesso di non sparire un'altra volta."
"Paoletto, io non penso che gli scout abbiano bisogno di me" fece per interrompermi, ma io continuai a parlare "ma noi due resteremo ugualmente amici. Ti ho promesso che non me ne andrò."
"E se fossi io ad aver bisogno di te?"
"Perché dovresti? Cosa pensi che potrei darti?"
Non rispose e non mi guardò.
"Io... non sono più il tuo caposquadriglia" insistei, dovevo dirgli quanto poco valessi in tutto, com'era malriposta la sua fiducia e cercai di farlo con una certa onestà "In questi anni sono cambiato. Mi sono drogato ed ho rubato soldi ai miei genitori. Per comprarmi la droga ho fatto altre cose brutte. Molto più brutte di quanto tu possa immaginare. Mio padre mi ha fatto smettere, ma non l'ho mai ringraziato e sai perché? È morto prima che potessi farlo. Quando lui stava per morire e mi avrebbe voluto accanto a sé, io studiavo: non facevo altro. Trascorrevo le notti con lui. Sedevo vicino al letto, a vegliarlo, gli iniettavo il calmante, ma quando capivo che lui aveva voglia di parlarmi, io fingevo di dormire. Me ne stavo al buio con gli occhi sbarrati. E lui era steso accanto a me, intorpidito dalle droghe. Che avrà mai voluto dirmi? Gliel'ho consentito poche volte. E non l'ho mai ringraziato per avermi salvato. E sai perché? Perché non gli avevo perdonato di avermi messo al mondo!"
Mi accorsi di avere gli occhi lucidi e poi di stare già piangendo, di avere le guance rigate di lacrime. Mi coprii la faccia con le mani, vergognandomi che mi vedesse così, ma forse era un bene. forse avrebbe capito quanto poco valessi.
Ma se ne stava zitto, steso su un fianco e il suo corpo continuava a tentarmi. E quel pensiero che, ancora una volta, oltre che a sconvolgere la mia vita, giungeva a eccitarmi, diede un'altra spinta alla mia commozione. Sentii la tristezza avvolgermi e soffocarmi, la disperazione di non riuscire a controllarmi. Mi tesi ancora di più nello sforzo di non scoppiare in singhiozzi.
Si avvicinò per accarezzarmi la spalla e il suo tocco mi fece rabbrividire.
"A me non importa nulla di quello che hai fatto" disse dolcemente "Avrei voluto soffrire con te, ma non c'ero. Ora voglio solo che noi due restiamo amici. Non voglio che tu te ne vada un'altra volta. Ricordati che me l'hai promesso!"
" Lo so, sono tuo prigioniero..."
Per un momento sognai che dietro la sua insistenza ci fosse un sentimento simile a quello cui io cercavo di sfuggire, sognai di restargli accanto per tutta la vita, ma fu soltanto un attimo, perché subito capii che, quello che avevo fatto una volta, mi apprestavo a farlo ancora, perché per me, accanto a lui, non c'era posto, non poteva esserci.
Restargli vicino senza turbarlo o senza violare la sua innocenza era impossibile. Non avrei resistito, perché, anche in un momento come quello, mi ero eccitato. Come potevo sperare di resistergli accanto, senza insidiarlo?
"Me l'hai promesso" lo sentii ripetere.
Immaginai quello che avrei fatto dopo la fine del campeggio: me ne sarei andato il più lontano possibile a frequentare l'università, avrei convinto mia madre a seguirmi e comunque a lasciare la città. Non saremmo più tornati. Forse l'avrei rivisto, ma non avremmo avuto più occasioni di stare insieme. Alla fine si sarebbe rassegnato e questa volta non avrebbe pianto, perché il mio tradimento sarebbe stato evidente e quindi definitivo.
Ma proprio mentre facevo questi pensieri, pianificando il mio voltafaccia, lui mi sfiorò la spalla, mi prese una mano e la tenne fra le sue, se l'avvicinò alla guancia per farsene accarezzare. Poi la posò sull'erba e tornò a stendersi, mise il capo sul braccio allungato, continuando a fissarmi.
Lo osservavo con il cuore in gola per l'emozione.
Il tempo si fermò. La sua serenità si trasmise a me. Restai a guardarlo. Chiuse gli occhi, parve addormentarsi, li chiusi anch'io.
Anche il bosco tacque.
Tornammo a guardarci, non so cosa dicessero i miei occhi, ma nei suoi lessi qualcosa che mi riempì di gioia e di disperazione.
Decisi che avrei atteso ancora qualche giorno, prima di dirgli la verità, per rivelargli che me ne sarei andato per sempre. Volevo ancora un po' del suo affetto, ne avevo bisogno. Ero così egoista. Avrei lasciato a lui la responsabilità della decisione.
Si fece presto ora di metterci in cammino.
Tornammo al campo molto lentamente, fermandoci spesso, perché gli era tornato il dolore alla gamba. Camminammo abbracciati e lui mi tenne il braccio sulle spalle per quasi tutto il percorso. Mi adattai al suo corpo, per sostenerlo e toccarlo. Non pensai a nulla che non fosse il calore che mi trasmetteva il suo contatto.
Parlammo degli scout, della sua squadriglia, del campeggio, mi confidò i suoi progetti per l'anno prossimo quando sarebbe diventato novizio rover. Ad ogni sua parola, ad ogni segno di entusiasmo per il proprio futuro, però, capivo che la sua vita non doveva assolutamente essere sconvolta dalla mia presenza, dalle proposte che sarei stato tentato di fargli e che certamente gli avrei fatto, restandogli accanto. Ero ormai certo che, se l'avessi voluto, l'avrei attirarlo fra le mie braccia in quello stesso momento. Un cenno e sarebbe stato mio in ogni senso, là nel bosco, mentre il sole del pomeriggio rendeva tutto più rosso. Ma l'amavo e non poteva accadere. La sofferenza doveva essere soltanto mia.
Avremmo parlato, mi sarei confidato e forse saremmo restati amici. Gli avrei spiegato tutto. Lui forse sapeva già ed era anche pronto a sacrificarsi per me, ma non gliel'avrei permesso. Dovevo affrontare la mia vita da solo e lasciarmene sommergere, senza trascinarlo in luoghi dove mai si sarebbe avventurato se non mi avesse incontrato. Il suo futuro era per sé solo.
Arrivammo al campo. La nostra piccola escursione finì e con essa anche il mio sogno. Avevo avuto Paoletto per me e solo per me. Una giornata intera con lui, da soli. Che altro potevo aspettarmi dalla vita?
Lo curai ancora per un po', ma il mio bambino era ormai svezzato e quasi guarito, anche se doveva usare con prudenza la gamba malata. La nostra vita in comune si ridusse a qualche chiacchierata, ai miei sguardi perduti dietro a lui, ai suoi sorrisi contenti quando mi sorprendeva a fissarlo, perché era felice che fossi là almeno quanto lo ero io di essergli accanto. Era felice, di questo ero certo. E nessun pensiero o rimpianto mi avrebbe mai sottratto questa certezza.
L'ultima sera del campo era tradizione che si svolgessero una serie di riti che, nonostante il mio nuovo fervore, continuavo a ritenere piuttosto privi d'interesse e adatti a chi aveva l'età e la fantasia per rivestirli di ideali. Quel tempo per me se n'era andato e nulla, neppure l'entusiasmo di Paoletto l'avrebbe fatto tornare.
A quell'ultimo fuoco di bivacco partecipai comunque: era un'occasione memorabile da rievocare per tutto l'anno successivo e per lui era l'ultimo prima di passare fra i rover. E se era importante per lui, finì per diventarlo anche per me, nonostante la mia indifferenza.
In quel fuoco si bruciava molta legna, tutta quella che era servita per costruire tavoli, panche e cucine. Per tutto il giorno avevamo smontato il campo e per quanto possibile erano state coperte tutte le tracce del nostro passaggio. Dopo l'inverno, quella radura sarebbe tornata com'era al momento del nostro arrivo. Essendo l'ultimo fuoco vi si facevano anche molte promesse: proponimenti personali, alcuni da comunicare a tutti, altri da tenere per sé. Era la serata più importante di tutto il campeggio, ma solo per chi la vivesse con gli occhi incantati dell'innocenza. Si cantava e si giocava, ma c'erano momenti di commozione, soprattutto perché il giorno dopo tutto sarebbe finito. E ci si era troppo divertiti per poter accettare di andarcene, senza emozionarsi almeno un po'. Finì che anche a me vennero gli occhi lucidi.
Ogni sera del campo s'era acceso il fuoco di bivacco e ogni sera il silenzio del bosco era stato rotto da canti e risate, dalla nostra allegria e poi dalla stanchezza. Alla fine si faceva l'ultimo canto, sempre lo stesso. Paoletto aveva sempre fatto in modo di essermi vicino, per tenermi la mano, quando dovevamo fare una preghiera che io borbottavo, non riuscendo a credere alle parole che dicevo e che invece lui cantava, abbastanza infervorato.
Quella sera speciale, dopo che tutte le consuetudini furono rispettate, restava solo l'ultimo adempimento, l'ultima fatica: era tradizione che i più grandi attendessero l'alba attorno all'ultimo grande fuoco che ormai languiva. Poteva fare anche molto freddo, e in genere era così, ma per nessuna ragione, chi finalmente ne aveva diritto rinunciava a quella specie di investitura, di rito di passaggio.
E sapevo che lui sarebbe rimasto accanto a me per tutta la notte, fino a che il chiarore del sole non avesse illuminato il cielo.
Non mi chiese di restare, non a parole, ma non dubitai che lo desiderasse, perciò stesi il mio sacco a pelo vicino al suo. Faceva già molto freddo e ci chiudemmo dentro, lasciando solo un po' di spazio per respirare e per guardarci negli occhi.
"Hai sonno?" gli chiesi.
Scosse la testa a farmi cenno che no, non avrebbe dormito per nulla al mondo. Quella notte era la sua notte. L'ultima da ragazzo e la prima da uomo. Forse non era così, forse, come era accaduto per me che avevo definitivamente smarrito la ragione in una notte come quella, il confine fra adolescenza e maturità non era così netto e così facile da varcare.
"E tu vuoi dormire?"
"No!" lo rassicurai. Sarei rimasto con lui a tenergli la mano. Metaforicamente, perché l'aria era gelida.
Mi sistemai meglio sfruttando un avvallamento del terreno per adagiare il mio corpo stanco e sfiancato dalla giornata tremenda. Come facessi a non crollare nel sonno, non lo so, ma ero mentalmente lucido, almeno quanto fisicamente sfinito. E così doveva essere per lui.
Molti degli altri che erano come noi attorno al fuoco, stavano chiacchierando. Qualcuno aveva ceduto alla stanchezza e già dormiva.
"Mi sei mancato, lo sai?" disse dopo un po'.
"Anche tu!"
"Dimmi qualcosa, solo quello che non ti fa male. Quello che credi io dovrei sapere."
Dal fuoco venivano bagliori che ci illuminavano. Le nostre facce erano come macchie rosse sullo scuro dei sacchi a pelo e nel buio della notte.
"Tu mi sei mancato. Mi sei mancato davvero e vorrei dirti tutto, perché vorrei che tu sapessi, ma mi fa ancora male e mi fa ancora più male ricordare!"
Mi si fece più vicino, tirò fuori un braccio e m'accarezzò sulla guancia. La sua mano era calda.
Il desiderio assurdo di averlo con me nel sacco a pelo mi colse. Lo volevo, ma solo per riscaldarmi col calore del suo corpo e per scaldare lui che doveva anche avere freddo.
"Dimmi a cosa stai pensando."
Mi prese un po' alla sprovvista.
"Niente di importante" farfugliai "Ho solo freddo!"
"Non ci credo. Hai fatto una faccia... Dai, dimmi a che pensavi! Ti prego!"
"Al fatto che anche tu devi avere freddo e che vorrei riscaldarti!"
"Vuoi sapere a che pensavo io?"
"Si."
"Che sarebbe bello se fossimo da soli noi due, qua, stanotte. In questi anni, dovunque andassi, ho pensato a come sarebbe stato bello essere con te in ognuno di quei posti. Ovunque ho fantasticato che ci fossi anche tu. E tu non c'eri. Non sono mai venuto a cercarti, ma sapevo sempre dov'eri!"
Sobbalzai. Mi stava sconcertando.
Sorrise alla mia sorpresa: "Ho continuato a seguirti..."
"Come facevi? Chi ti diceva dov'ero?"
"Qualche volta Marco, ma dovevo insistere, perché era terribilmente restio anche solo a nominarti. Oppure altri cui chiedevo. E poi ti ho visto per strada molte volte."
"Marco ti raccontava di me? E cosa?"
"Niente... poche cose, diceva solo che stavi bene e che non ti mancava nulla. E mi faceva sempre promettere che non sarei mai venuto a cercarti, perché dovevi essere tu a decidere di tornare con noi!"
Mentalmente rivolsi a Marco tutte le scuse che potei, per quanto male avessi pensato di lui.
"E che altro sai?"
`Dio ti prego fa che non abbia saputo tutto' pensai. Temetti che le porte dell'inferno si stessero spalancando nuovamente per me.
"Che non ti lavavi" rise e immaginai che lui non l'avrebbe mai fatto "che ti vestivi di stracci e fumavi erba. Ti facevi dare i soldi da tua madre, ma poi lei ha dovuto smettere, perché tuo padre gliel'ha proibito e allora tu hai cominciato a rubacchiare. Che a scuola ti hanno promosso per merito di tuo padre che ha chiesto ed ottenuto il favore."
Sapeva quasi tutto.
"Che altro sai?"
"Questo è tutto, non so più niente. Ma quando hai smesso e sei tornato, diciamo, normale..."
Si raccolse su se stesso, come a difendersi dal freddo. Lo vidi rabbrividire. Mi avvicinai ancora e le nostre teste furono quasi a contatto. La sua voce era un sussurro e sentivo il calore del fiato sulla faccia.
"Quando sei tornato normale, è stato il momento più brutto per me. Ero contento che avessi smesso di drogarti, che avessi ripreso a studiare. Sono stato orgoglioso di te quando ho saputo che hai fatto in così poco tempo quello che si fa in tutto un anno scolastico. È stato allora che io credevo, mi aspettavo, che tornassi con noi, da me. Ti ho aspettato ogni sera e tu non l'hai fatto. Sarei venuto a cercarti, ma avevo promesso a Marco di non farlo e poi ho capito che tu non mi volevi vedere. Ho dovuto attendere tanto. È stato brutto. Ti vedevo per strada, da lontano. Tu non mi hai mai notato, perché camminavi sempre a testa bassa. E poi ho saputo di tuo padre. E ho pianto per lui, per tua madre e per te. Soprattutto per te!"
Le sue labbra erano a pochi centimetri dalle mie, le vidi tremare, come se stesse per piangere.
"Non andartene, Roby. Ti prego!"
"Te l'ho promesso..."
"Lo so, ma ho paura. Non lasciarmi più da solo."
Attorno a noi c'era una quiete assoluta. Probabilmente eravamo gli ultimi svegli vicino al fuoco che stava consumandosi, lanciando scintille il cui rumore era l'unico suono che potevamo udire.
"Ho freddo" disse "e tutto questo silenzio mi fa paura!"
Tirai fuori le braccia e l'attirai a me, lo strinsi. Faceva davvero molto freddo.
"Sapevo che saresti tornato" mormorò "ma ho tanta paura che tu te ne vada un'altra volta!"
"Non me ne vado, non me ne vado, non preoccuparti!"
Lo cullai. Se qualcuno ci avesse visto sarebbe stato difficile spiegare quello che stavamo facendo, ma non ci badai, non era il momento.
"Non so perché... ma credo che senza di te non potrei più vivere."
"Perché dici questo?" ero spaventato da quello che stavo sentendo.
"Si, è così!" insistette testardo. Ma era insonnolito, la giornata era stata lunga e la mezzanotte era passata da molto.
"Va bene. È come dici tu, ma adesso dormiamo."
E lo baciai sulla fronte.
"E tu? Tu perché non mi cercavi?"
"Dormiamo. Te ne parlerò. Ti dirò tutto. OK? Ma non ora. Adesso non voglio!"
"Prometti che mi dirai tutto?"
"Si!"
"E che non te ne andrai? Che non mi lascerai un'altra volta?"
"Giuro che decideremo insieme del nostro futuro. Te lo giuro su mio padre" mi pentii di aver detto così, non avrei mai immaginato di poterlo fare "Paoletto, il mio futuro non esiste, ma te lo regalo lo stesso."
Mi guardò come se non avesse capito e pensai che doveva essere così. Poi mi sorprese, come aveva sempre fatto.
"Non te ne pentirai" mi disse con convinzione "avresti dovuto farlo prima!"
Dio, quanto aveva ragione!
"Dormiamo?"
"D'accordo, dormiamo. Quando mi sveglierò, domani, so che ti troverò qua, ma dopo?"
"Te l'ho giurato. Vale così poco la mia parola?"
"No. Ti credo, anche se ho paura!"
Ci addormentammo abbracciati e se al mattino nessuno ci vide, se il nostro onore fu salvo, fu perché poco dopo il freddo mi fece svegliare. Allora riportai le braccia nel sacco a pelo, ma prima di riaddormentarmi lo baciai sulle labbra, lo baciai e poi ancora, fino a stancarmi, dimenticandomi anche che qualcuno poteva scoprire il mio segreto o che lui potesse svegliarsi.
Lo baciai, perché quello sarebbe stato l'unico vero bacio che gli avrei mai dato.
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